La
saga dei Fanes - Opere specifiche
G.B.
Alton, 1881: Proverbi, tradizioni ed anneddoti [sic]
delle valli ladine orientali, Innsbruck
Ristampa
anastatica, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1985
N.B.1:
il nome di Giovanni Battista Alton (da pronunciarsi tronco: Altòn)
si può trovare scritto quanto meno nelle forme: Giovanni,
Giovanni Battista, Gian Battista, Johann, Johann Batista, Janbatista
e Tita.
N.B.2: Alton riconosceva come “valli ladine” quelle
svizzere ove si parla il romancio e quelle dolomitiche ove si
parla il ladino p.d.; oggi si aggiungerebbe il Friuli e si parlerebbe
dunque dell’area dolomitica come di “valli ladine
centrali”.
1.
Vita e opere
N.B.:
queste note sono estratte principalmente da un testo del
prof. Walter Belardi, docente di Glottologia all’Università
“La Sapienza” di Roma, reperibile sul sito:
http://www.sbg.ac.at/rom/,
nonché da alcuni siti ladini.
Esiste anche una biografia di Alton: Franzl Pizzinini, Prof.
Dut. Janbatista Alton, Balsan, Ferrari-Auer, 1962,
50 pp, consultabile p.es. presso l'Istituto Ladino di S.Martino
in Badia. |
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Tita
Alton nacque nel 1845 da una povera famiglia di contadini di Pezzedi,
una frazione alta di Colfosco. Studiò a Bressanone ed a
Trento, e si laureò in lingue classiche e moderne all’Università
di Innsbruck, non senza aver passato due anni a Parigi a perfezionare
il suo francese. Professore di ginnasio e liceo, insegnò
a Trento, Praga e Vienna; quindi fu mandato a dirigere il ginnasio-liceo
di Rovereto. Qui morì solo pochi mesi dopo, nel 1900, sgozzato
da un ladro, ladino anch’egli, che era penetrato nella sua
abitazione.
L’interesse scientifico principale di Alton fu la glottologia
della lingua ladina. Fu autore del saggio, ancora oggi fondamentale,
Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein,
Ampezzo, Innsbruck, Wagner, 1879, pp. 376; ristampa anastatica:
Sala Bolognese, Arnaldo Forni editore, 1990, che comprendeva una
grammatica, un glossario con note etimologiche ed una fonetica
comparativa dei vari dialetti ladini.
Alton non fu quello che oggi si definirebbe un “attivista”,
ma si prodigò con serietà e costante impegno alla
rivalutazione ed alla divulgazione di tutti gli aspetti della
cultura ladina, pubblicando anche Rimes ladines in pért
con traduzion taliana, 1885 e Stóries e chiánties
ladines, 1895, tutte edite a Innsbruck.
Oltre a ciò, Alton fu anche un appassionato alpinista:
realizzò la prima ascensione al Sass Pordoi e nel 1872,
col fratello Josef, alla Cima Pisciadù; nel 1886 fondò
la prima associazione alpinistica della val Badia (“Sektion
Ladinien” del D.Ö.A.V.); tre anni più tardi
per sua iniziativa venne costruito il rif. Puez sulla Gardenaccia.
Nel 1895, essendo stata costituita la prima associazione di pompieri
volontari (Stùdafùch) di Colfosco, Corvara
e Pescosta, Alton, che all’epoca insegnava a Vienna, procurò
loro le divise usate dei pompieri di quella città e si
occupò di far arrivare in Badia la prima pompa antincendio
a mano.
2. I Proverbi
La
prima evidente caratteristica dei Proverbi è quella
di essere scritti in ladino con traduzione italiana a fianco,
cosa che li rende estremamente interessanti anche per chi desideri
farsi un’idea del suono e dei costrutti del ladino senza
con questo sottoporsi ad un vero e proprio studio della lingua.
Il contenuto dell’opera, dopo una lunga ed interessante
prefazione, è diviso in tre parti. La prima (Raccolta
di proverbi ladini) è un lungo elenco di proverbi
veri e propri e di modi di dire, di notevole interesse per gli
appassionati della lingua e del folklore, ma non particolarmente
per gli studiosi delle leggende. La seconda (Idioma ladino:
tradizioni e racconti) e la terza (gli “Anneddoti”)
non differiscono in realtà molto tra di loro per i contenuti;
forse gli aneddoti sembrano essere generalmente un po’ più
moderni delle tradizioni, ma neppure questo è sempre vero.
Da segnalare invece la distinzione che Alton compie tra racconti
ed aneddoti nell’idioma ladino in senso stretto ed in quelli
rispettivamente gardenese, fassano e livinallonghese (o “fodom”).
Traggo in proposito da Belardi (op.cit.), che commenta l’altra
opera di Alton Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden,
Fassa, Buchenstein, Ampezzo:
“Limitato il discorso all’area centrale dolomitica
(poiché ladin ricorre anche in Engadina e in Spagna),
in senso strettissimo e glottonomastico, ladino nell’uso
locale indica – come è ben noto – la parlata
di San Martin de Tor (San Martino) e dintorni nella bassa Val
Badia (o Badia settentrionale), in quanto gli abitanti stessi
con baié ladin intendevano e ancora intendono
l’esprimersi nella loro parlata, che essi stessi ben avvertono
diversa dalle altre parlate, pure affini, dei paesi circostanti
(badiot in senso stretto si applica all’alta Val
Badia). In senso meno stretto ladin vuole dire ladin + badiot,
e in uno meno stretto ancora vuole dire ladin + badiot + mareo
(della Valle del Marebbe, affluente del fiume Gadera, da San Vigilio
a Longega). Il toponimo Ladinien che compare nel titolo
del libro dell’Alton si riferisce a questa applicabilità
meno stretta, e comprende, pertanto, l’insieme delle valli
di Badia (da Pera Forada fino a Colfosco, escluso questo, se si
vuole, avendo Colfosco gravitato per secoli nell’orbita
gardenese di Selva ed essendo appartenuto da tempi remotissimi
alla parrocchia di Laion)
e di Marebbe (in tedesco usualmente Enneberg, che però
aveva una applicabilità territoriale più vasta,
in quanto comprendeva anche il territorio della Badia situato
a destra del Gadera). L’aggettivo ladinisch, presente
anch’esso nel titolo del libro, ha invece un senso più
esteso (come anche in italiano) fino a comprendere l’insieme
linguistico delle quattro vallate, per così dire, "sellane"
(Badia, Gardena, Livinallongo e Fassa, così nell’ordine
in cui figurano nel titolo, con Marebbe da aggiungere a Badia),
e in un senso ancora più esteso comprende perfino l’ampezzano
della vallata di Cortina (esiste inoltre, dall’Ascoli
in poi, un significato di massima latitudine, che abbraccia grigionese,
ladino dolomitico, comelicese compreso, e friulano).”
Lasciando
da parte i complessi aspetti linguistici, troviamo nell’opera
di Alton numerosi godibilissimi racconti ed informazioni d’ogni
genere sulla vita nelle antiche valli ladine; fra le più
curiose:
- un tempo, per andare dalla val Badia in val di Fassa si passava
sempre dalla val Mezdì (strada più breve e diritta,
ma molto più faticosa e pericolosa di quelle che aggirano
il massiccio del Sella). Un giorno, però, il piccolo ghiacciaio
che occupava il fondo della valle restituì una mano umana,
e nessuno se la sentì più di percorrerla;
- l’antico santuario-ospizio della Santa Croce, sopra Pedraces,
venne chiuso dall’imperatore Giuseppe II (1741-1790) perché
i paesani vi si recavano spesso a scopi non esattamente liturgici;
venne poi riaperto solo nel 1840;
- gli abitanti della valle di Tux (Zillertal, Austria) venivano
d’estate in Ladinia per distillarvi (“bruciarvi”)
acquavite di genziana;
- due ladini in visita a Venezia (seconda metà del ‘700?)
si meravigliavano dell’assenza di bestiame in città,
“fuorchè capre la mattina sulla piazza di S.Marco…
le signore venivano con delle pignatte di rame e d’argento
per mungerle”;
- nel 1792 a Corvara c’era un magistrato alla dogana con
due soldati doganieri, uno dei quali era turco. In un primo tempo
non ebbe urti coi locali, poi se la prese moltissimo per non essere
stato invitato alla prima messa celebrata in paese, e cominciò
ad insultare i cristiani. Alla fine si prese a tradimento una
tremenda randellata in testa, che lo lasciò semivivo e
di cui non riuscì mai a scoprire l’autore.
Passando
alla raccolta di elementi leggendari, la prima cosa che si osserva
è che Alton non sapeva assolutamente nulla dei Fanes (altrimenti
non avrebbe certamente mancato di accennarvi). Ma anche di quasi
tutte le altre leggende ladine oggi note, Alton non fa menzione.
La prima conclusione che se ne può trarre è che
a Colfosco la cosiddetta “comunità tradente”
doveva essere rimasta sempre isolata, oppure già nel 1850
era a dir poco molto danneggiata. Tuttavia Alton ebbe numerosi
informatori in tutte le valli ladine, in alcune delle quali la
comunità tradente doveva al contrario essere ancora ben
viva; eppure egli mancò di venire a conoscenza di molti
motivi, raccolti invece più tardi tanto da de
Rossi quanto soprattutto da Wolff.
Non resta che concludere che, fosse sfortuna, mancanza di fiuto,
mancanza di tempo, incapacità di guadagnarsi la fiducia
dei narratori, o fosse perché i tempi non erano ancora
maturi perché questi decidessero di aprirsi ad un estraneo,
Alton non entrò mai in contatto attivo con le persone “giuste”,
tanto che arrivò a concludere “ad onta di ciò
le parole: “L’indagatore di tradizioni, l’istoriografo,
vi troverebbe soggetti di riflessione a ribocco” non si
possono ammettere che con grande riserbatezza”.
Ciò
detto, non si può negare che il materiale folkloristico
raccolto da Alton sia peraltro cospicuo. Certo, da’ una
sensazione di incompletezza e soprattutto di sbiadimento, di confusione,
come se si trattasse di vecchie storie raccolte affrettatamente
ed ormai solo imperfettamente conosciute e soprattutto comprese.
Non si può non segnalare, ad esempio, il “cèst
de éves” erroneamente interpretato come “alveare”
anziché “cesto di uova”, come sarebbe evidente
già dal contesto stesso della leggenda (Primi principi
della valle di Fassa; errore dell’informatore, o incomprensione
fra i due?); a proposito delle uova, cfr. la medesima leggenda
raccolta da de Rossi,
ed anche le considerazioni di M. Maticetov e quelle di S. de Rachewiltz
in Mondo Ladino, IX (1985), n.3-4. Va tuttavia affermato che Alton
trascrisse con assoluta fedeltà intellettuale tutto e solo
quello che gli veniva riferito, senza permettersi la minima delle
licenze poetiche – a volte sesquipedali – che Wolff
invece dichiaratamente si concesse senza ritegno.
Veniamo ad alcuni tra gli elementi folklorici più importanti
di cui Alton ci riferisce, sorvolando su altri come streghe e
stregoni, che ci porterebbero in direzioni ininfluenti agli scopi
di questo sito:
a. Gannes e salvans
Alton tratta di “ganne” e “silvani” in
quattro punti: nella prefazione, nel paragrafo “Le Ganne
ed i Silvani”, nei “Primi principi della Valle di
Fassa” ed infine in “Tarata e Taraton”.
Egli afferma che le gannes sono le donne dei salvans.
Gente mansueta ed innocua, se offesi o maltrattati possono però
vendicarsi in modo terribile. Piuttosto pelosi, di statura umana
ordinaria ma di forza gigantesca, essi dimorano nelle grotte e
tra le rocce. Si nutrono di selvaggina, ma sono sempre orribilmente
affamati. Coperti di pelli di belve, lupi, orsi e buoi selvatici,
d’inverno hanno molto freddo e vengono volentieri tra le
persone, a riscaldarsi accanto al fuoco. Accettano regali, particolarmente
di cibo, ma non ne chiedono mai; parlano poco ed imparano con
gran fatica qualche parola di ladino. Hanno una paura terribile
del tuono ed osservano attentamente gli atti degli uomini per
imitarli a casa propria. Amano molto le pecore, e a volte aprono
le porte degli ovili per portarle a pascolare di notte. Le gannes,
che si vedono in realtà molto più spesso degli uomini
e sono di un’indole più affabile e meno selvatica,
sono abili anche nei lavori domestici, nei quali assistono sovente
le massaie ladine.
Queste
notizie Alton dovette apprenderle nell’ambito della sua
stessa famiglia, che doveva essere particolarmente erudita in
materia, visto che abitava a Pezzedi, uno dei luoghi dove ganne
e silvani si erano fatti vedere più di frequente. Essi
(peraltro ormai estinti da tempo) abitavano infatti in modo particolare
sul Puez e sui prati intorno, e dunque d’inverno, sopraffatti
dal freddo e dalla fame, scendevano soprattutto a Longiarù
(si voleva anzi che gli abitanti di Longiarù fossero proprio
discendenti dei silvani) ed a Pezzedi. Anzi, una volta un uomo
di Pezzedi aveva sposato una ganna di bell’aspetto, che
si era rivelata ottima moglie e madre; ma quando l’uomo
aveva accidentalmente violato il tabù di non toccarla mai
col dorso della mano, se ne era andata via immediatamente, in
lacrime, per non farsi vedere mai più.
In
val di Fassa, al posto di al posto di gannes e salvans
si hanno vivenes e vivans. Condividono quasi
tutti gli attributi dei primi, ma sono destinati a vivere fino
alla fine del mondo (da cui il nome) ed hanno la facoltà
di rendersi invisibili. Le vivane sono inette alla tessitura e
rubacchiano pannolini e vestiti.
In Fassa però vivono anche bregostans e bregostenes,
sulla cui indole si hanno notizie abbastanza contrastanti. Pare
ad esempio che le bregostene rubino i bambini, o meglio li scambino
con i propri; ma non fanno loro nulla di male, ed a certe condizioni
sono disposte a restituirli. Il loro nome proprio sembra essere
sempre Taraton per i maschi e Tarata o Taratona per le femmine;
nomi che Alton propende a far derivare da Wotan. Egli osserva
che in principio i bregostans dovevano essere buoni come
i salvans e gli sembra che la gente confonda tra loro
vivene e bregostene; conclude supponendo che si tratti delle stesse
identiche figure, il cui lato buono e rispettivamente lato cattivo
hanno finito per assumere tra il popolino dei nomi diversi. Per
l’etimologia di bregostan, Alton propone una derivazione
da breogo o bregostol, parole che ricorrono
p.es. nel Beowulf ed indicano “capo, re” (forse da
praepositus).
Alla
Valle, gannes e salvans si chiamavano pantegannes
e pantegans. Non sembra che a nessuno, né ai paesani
né ad Alton stesso, sia mai occorso di pensare che, all’origine
di questa strana deformazione del nome ladino originario per assonanza
con un termine esotico (pantegana significa “grosso ratto”
e viene dal dialetto veneto; il nome deriva dal greco pontykòs,
ossia “proveniente dal Ponto” ed è quindi stato
portato a Venezia assieme alle navi che commerciavano col Mar
Nero, presumibilmente non prima delle Crociate) non può
non esservi stato un qualche tipo di burla, i cui effetti sono
ormai destinati a rimanere per sempre.
Ad ogni modo le caratteristiche di questi silvani dal nome inconsueto
non si discostavano molto da quelle delle loro controparti alto-badiotte
o fassane. Storpiavano malamente il ladino chiedendo ai contadini
qualcosa da mangiare: “Puca latta, puco pan”.
Sempre alla Valle, era viva la storia (che si trova anche nella
val di Fassa di de
Rossi) del “pantegan” cui un contadino
chiude con la frode le mani in un ceppo, dopo avergli detto di
chiamarsi “Istesso” per evitare la reazione dei suoi
compagni, secondo una variante del mito di Ulisse e Polifemo.
Considerazioni
generali su anguane e salvani compaiono altrove
in questo sito. Aggiungo alcune osservazioni specifiche:
- che le anguane non siano affatto le mogli dei silvani è
oggi dimostrabile abbastanza facilmente (basti pensare al ben
diverso areale in cui sono diffuse le due figure, nessuna delle
quali è autoctona delle Dolomiti, ed alla diversa funzione
che esse svolgono nelle leggende);
- è tuttavia evidente che in val Badia questo è
quello che la gente credeva. Si osservi però che il legame
con l’acqua e col sacro, ancor oggi vivissimo nel Veneto,
ben chiaro in varie leggende ladine – tra cui la saga dei
Fanes – e riscontrabile in tracce nelle stesse tradizioni
fassane raccolte da Alton (immortalità, invisibilità;
nella leggenda dello Snigolà la stessa donna Quelina
è detta essere una vivena!) è in Badia completamente
assente. Sembra dunque assai probabile che del significato primitivo
delle gannes vi si fosse persa ogni traccia, e che queste,
pur conservando il nome originario, fossero platealmente confuse
con le salvarie (delle quali in Alton non si fa cenno): queste
sì, a buon diritto le donne dei silvani;
- l’accenno al fatto che i salvans si vestissero
con pelli (anche) di bue selvatico fornisce un appiglio per datare
in via molto approssimativa le notizie fornite da Alton; infatti
l’uro (Bos taurus primigenius) scomparve dall’Europa
occidentale nel XIII secolo. Ovviamente ciò non basta a
stabilire quando l’uro si sia estinto nelle Dolomiti (potrebbe
essere accaduto sia molto prima che poco dopo) e meno ancora quando
si siano estinti i silvani (che avrebbero potuto sopravvivere
benissimo vestendosi con le pelli di altri animali), tuttavia
chiarisce che le informazioni tradizionali badiotte su gannes
e salvans risalgono quanto meno al Duecento;
- il quadro delle notizie sui silvani, così come erano
noti a Pezzedi, appare compatto, coerente ed estremamente realistico.
Si potrebbe affermare con una certa tranquillità che, se
i silvani fossero veramente vissuti, avrebbero sicuramente lasciato
una traccia di sé nella memoria dei paesani non dissimile
da quella che effettivamente vi ritroviamo. Ciò naturalmente
non basta, in sé, ad affermare che essi siano certamente
esistiti, ma ne costituisce quanto meno un forte indizio; per
ulteriori considerazioni, rimando nuovamente alla trattazione
specifica.
b. L’Orco
L’orco è un demone che può assumere qualsiasi
forma gli piaccia. Può sembrare un cavallo, ed indurre
l’incauto a montargli in groppa, dopodichè si ingrandisce
a dismisura e lo conduce in una selvaggia galoppata attraverso
le regioni del cielo; infine lo riporta, esausto, lacero e sanguinante,
al punto di partenza. Oppure assume le sembianze di una piccola
palla; non appena un viandante lo supera, inizia a rotolargli
dietro ingrandendosi sempre più e correndogli appresso
sempre più velocemente, finchè quello non crolla
al suolo spossato. O anche fa perdere completamente la strada,
facendo perdere ore su ore a districarsi da passaggi difficili
e pericolosi, per poi ritrovarsi al punto di partenza. Sembra
dunque che la sua specialità siano le burle, in verità
piuttosto pesanti; e in effetti è noto anche per far sparire
qualche capo dal pollaio, o la biancheria, o il latte; ed esprime
il suo compiacimento per per uno “scherzo” ben riuscito
emettendo alte risate e grida sataniche. Guai però a farsi
beffe di lui, o a replicare al suo grido: allora si scatena, e
per il temerario possono essere guai seri, se non riesce ad entrare
in tempo in una casa, perché per l’orco le case sono
tabù. Per il resto può apparire dappertutto, anche
se predilige alcune località selvagge, grandi boschi o
passi montani. Sembra essere anche correlato al tempo atmosferico,
dato che può suscitare temporali e bufere, e freddo gelido
nel cuore dell’estate. Alcune delle sue vittime sono state
sollevate e sbalzate lontano da folate di vento improvviso. Infine,
quando se ne va, lascia dietro a sé una puzza insostenibile,
da cui il detto “puzzare come l’orco”.
L’orco è comunque uno degli esseri che più
hanno inciso nella fantasia dei badiotti, e un elevato numero
di aneddoti raccolti da Alton verte su di lui.
c.
Il Báo
Se l’orco è un temibile, perfido burlone, il Báo
è ben peggio. Alton lo accomuna a Wotan che dirige la “caccia
selvaggia” dei popoli nordici; appare nella forma di un
gigante nerovestito che afferra i malcapitati, li trascina attraverso
l’aria e se li porta direttamente all’inferno. La
sua importanza folklorica è tuttavia molto minore di quella
dell’orco; visto che le sue prede sono in genere ragazzi
disobbedienti, non è difficile pensare che sia stato “inventato”,
o almeno preservato, al solo scopo di mantenere l’ordine
terrorizzandoli. Potrebbe quindi facilmente imparentarsi al Wauwau
austriaco od al babau italiano. Tuttavia anche uno spettro
che frequenta una casa di Corvara viene definito "un Bao".
d. Il Pavarò
Il Pavarò è un demone cinocefalo d’orrido
aspetto che sta a guardia dei campi, soprattutto quelli di fave;
possiede un falcetto d’oro che affila continuamente, col
quale taglia le gambe ai ragazzi che si inoltrano nel suo territorio,
in ciò agevolato dal possedere braccia lunghissime tipo
“Tiramolla”. Sembra dunque un analogo virtuale
ed antiuomo dello spaventapasseri, ed effettivamente, in badiotto,
lo spaventapasseri è detto per l’appunto pavarò
(pargaró in dialetto di Marebbe). Secondo de
Rossi, in val di Fassa una figura del tutto analoga per aspetto
e funzioni è detta pavarùk (manca però
il significato parallelo di spaventapasseri). Lo stesso personaggio,
chiamato Ganbarétol, si incontra a Falcade (D.Perco,
C.Zoldan: Leggende e credenze di tradizione orale della montagna
bellunese, Seravella 2001). Il nome del Pavarò sembrerebbe
derivare senza tema di smentita dal latino pavor, paura
(da cui l’italiano paura, ma anche spavento, pavido, spauracchio
ecc.). Tuttavia nel folklore russo (!) si incontra un altro personaggio
molto simile che sta di guardia ai raccolti e che si chiama polevìk
(da polje = campo); un termine nemmeno troppo distante
da pavarùk. Coincidenza? Come trait-d’union
si può menzionare (da M. Maticetov, op. cit.) uno scongiuro
sloveno in cui si intima alla nebbia di andarsene “perché
nel campo c’è il nonno e ti taglierà le gambe”!
e.
I draghi
I draghi non sono molto frequenti nelle Dolomiti; il più
noto è quello legato alla leggenda del Gran Bracun, personaggio
storico vissuto nel XVI secolo! Alton ne cita uno inchiodato sotto
il Col di Lana ed i cui movimenti provocherebbero valanghe e frane.
Più interessanti quelli che si troverebbero nelle profondità
dei laghetti di montagna (Boè, Crespeina e Puez); in queste
località si odono, in genere prima dei temporali, dei rumori
simili a forti detonazioni (altrove vengono definiti “come
dei tuoni lontani”). Si afferma che sarebbero i draghi che
si preparano a solcare il cielo. Alton poi cita la credenza che
i draghi prendano per la coda e trascinino sott’acqua il
bestiame che pascola troppo vicino alle sponde, e nota la singolarità
che i draghi ladini non siano mai posti di guardia a dei tesori.
Si dice che a volte si vedano volare da un lago all’altro;
nell’ottobre 1813 uno grandissimo, che faceva una terribile
luce infuocata, trasvolò sopra la Gardenaccia e scomparve
in direzione della Baviera.
Mentre per quest’ultimo caso (e forse altri che lo precedettero)
non è difficile parlare di un bolide, la causa dei rumori
sinistri potrebbe essere, visto che tutti i suddetti laghi sono
situati in zona carsica e dotati di affluenti e defluenti sotterranei,
l’improvviso aprirsi o chiudersi di un sifone al variare
della pressione esterna e/o delle portate interne del sistema
idrico.
f.
El Vènt e el Snigolá
La storia dello Snigolá è ancora la favola (presente
sia in Germania che in Italia, e quindi presumibilmente non autoctona)
che Wolff inserì
nel ciclo dei “Figli
del Sole” come seconda parte della storia di Cian
Bolpin, e che ritroviamo anche in de
Rossi, ma autonoma e priva di qualsiasi collegamento al ciclo
summenzionato (utilissime le note di U.Kindl
al testo di de Rossi
in Fiabe e leggende della val di Fassa). In Alton numerosi dettagli
sono omessi, e persino il nome Cian Bolpin è del tutto
assente.
Particolari notevoli:
- La protagonista è detta chiamarsi Donna Chelina
anziché Chenina come in de Rossi ed in Wolff;
manca dunque, oltre al nome totemico del Cian (Cane),
anche la sua eco nel nome della donna-di-un-altro-mondo. Ulrike
Kindl riconosce in Chelina la trasposizione di Aquilina,
presente nella versione italiana della favola. Chenina
non ne sarebbe dunque che una storpiatura, forse agevolata proprio
dalla presenza dell’animale totemico.
- Donna Chelina viene definita una vivena, conferendo a questa
tipologia folklorica una sacralità forse persino eccessiva;
- L’innominato pastore protagonista, dopo le nozze diventa
un vivàn. Sono propenso a credere che questa interpretazione
del vivàn sia fondamentalmente corretta: i vivani, cioè,
non sono la controparte maschile delle vivane, ma i mortali che
– eccezionalmente – sposano una vivana e si trasferiscono
nel loro mondo (in accordo al modello di Morgana, e non a quello
di Melusina). Ciò accade anche ad altri personaggi delle
leggende dolomitiche, e giustifica la marcata dissimmetria tra
vivano e vivana, nonché l’asserzione di un informatore
di de Rossi che
“del vivano si sa poco o nulla”;
- quando acquisisce (rubandolo a dei ladri!) il mantello magico
per volare (lo Snigolá, che significa “annuvolato”),
il protagonista diventa egli stesso “lo Snigolá”,
come se si trattasse di un titolo, o di una funzione, spettante
a chi indossa quel grigio mantello di pelliccia; e con questo
ottiene il controllo del tempo atmosferico, in particolare la
capacità di generare nebbia, nuvole e pioggia;
- il genio del vento viene definito “un bregostan”,
anche se non ha nulla a che spartire coi bestiali bregostani stupidi
e sanguinari delle leggende più tarde. In questa accezione,
la derivazione etimologica da “praepositus”
sembra molto più facile da accettare. Possibile che ci
sia stata una trasmigrazione del nome da una figura primordiale
alle altre, ben diverse, successive?
- Lo Snigolá combatte il bregostan del
vento (uno genera nuvole, l’altro cerca di soffiarle via);
alla fine vince l’Annuvolato, e il risultato è una
pioggia torrenziale. Sembra di sentire l’eco di un mito,
a cavallo tra animismo e politeismo, di cui non ci è rimasto
null’altro. |