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La saga dei Fanes - Opere specifiche

G.B. Alton, 1881: Proverbi, tradizioni ed anneddoti [sic] delle valli ladine orientali, Innsbruck

Ristampa anastatica, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1985

N.B.1: il nome di Giovanni Battista Alton (da pronunciarsi tronco: Altòn) si può trovare scritto quanto meno nelle forme: Giovanni, Giovanni Battista, Gian Battista, Johann, Johann Batista, Janbatista e Tita.
N.B.2: Alton riconosceva come “valli ladine” quelle svizzere ove si parla il romancio e quelle dolomitiche ove si parla il ladino p.d.; oggi si aggiungerebbe il Friuli e si parlerebbe dunque dell’area dolomitica come di “valli ladine centrali”.

 

1. Vita e opere

 

N.B.: queste note sono estratte principalmente da un testo del prof. Walter Belardi, docente di Glottologia all’Università “La Sapienza” di Roma, reperibile sul sito: http://www.sbg.ac.at/rom/, nonché da alcuni siti ladini.
Esiste anche una biografia di Alton: Franzl Pizzinini, Prof. Dut. Janbatista Alton, Balsan, Ferrari-Auer, 1962, 50 pp, consultabile p.es. presso l'Istituto Ladino di S.Martino in Badia.

Tita Alton nacque nel 1845 da una povera famiglia di contadini di Pezzedi, una frazione alta di Colfosco. Studiò a Bressanone ed a Trento, e si laureò in lingue classiche e moderne all’Università di Innsbruck, non senza aver passato due anni a Parigi a perfezionare il suo francese. Professore di ginnasio e liceo, insegnò a Trento, Praga e Vienna; quindi fu mandato a dirigere il ginnasio-liceo di Rovereto. Qui morì solo pochi mesi dopo, nel 1900, sgozzato da un ladro, ladino anch’egli, che era penetrato nella sua abitazione.

L’interesse scientifico principale di Alton fu la glottologia della lingua ladina. Fu autore del saggio, ancora oggi fondamentale, Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein, Ampezzo, Innsbruck, Wagner, 1879, pp. 376; ristampa anastatica: Sala Bolognese, Arnaldo Forni editore, 1990, che comprendeva una grammatica, un glossario con note etimologiche ed una fonetica comparativa dei vari dialetti ladini.

Alton non fu quello che oggi si definirebbe un “attivista”, ma si prodigò con serietà e costante impegno alla rivalutazione ed alla divulgazione di tutti gli aspetti della cultura ladina, pubblicando anche Rimes ladines in pért con traduzion taliana, 1885 e Stóries e chiánties ladines, 1895, tutte edite a Innsbruck.

Oltre a ciò, Alton fu anche un appassionato alpinista: realizzò la prima ascensione al Sass Pordoi e nel 1872, col fratello Josef, alla Cima Pisciadù; nel 1886 fondò la prima associazione alpinistica della val Badia (“Sektion Ladinien” del D.Ö.A.V.); tre anni più tardi per sua iniziativa venne costruito il rif. Puez sulla Gardenaccia.

Nel 1895, essendo stata costituita la prima associazione di pompieri volontari (Stùdafùch) di Colfosco, Corvara e Pescosta, Alton, che all’epoca insegnava a Vienna, procurò loro le divise usate dei pompieri di quella città e si occupò di far arrivare in Badia la prima pompa antincendio a mano.



2. I Proverbi

La prima evidente caratteristica dei Proverbi è quella di essere scritti in ladino con traduzione italiana a fianco, cosa che li rende estremamente interessanti anche per chi desideri farsi un’idea del suono e dei costrutti del ladino senza con questo sottoporsi ad un vero e proprio studio della lingua.
Il contenuto dell’opera, dopo una lunga ed interessante prefazione, è diviso in tre parti. La prima (Raccolta di proverbi ladini) è un lungo elenco di proverbi veri e propri e di modi di dire, di notevole interesse per gli appassionati della lingua e del folklore, ma non particolarmente per gli studiosi delle leggende. La seconda (Idioma ladino: tradizioni e racconti) e la terza (gli “Anneddoti”) non differiscono in realtà molto tra di loro per i contenuti; forse gli aneddoti sembrano essere generalmente un po’ più moderni delle tradizioni, ma neppure questo è sempre vero. Da segnalare invece la distinzione che Alton compie tra racconti ed aneddoti nell’idioma ladino in senso stretto ed in quelli rispettivamente gardenese, fassano e livinallonghese (o “fodom”). Traggo in proposito da Belardi (op.cit.), che commenta l’altra opera di Alton Die ladinischen Idiome in Ladinien, Gröden, Fassa, Buchenstein, Ampezzo:
“Limitato il discorso all’area centrale dolomitica (poiché ladin ricorre anche in Engadina e in Spagna), in senso strettissimo e glottonomastico, ladino nell’uso locale indica – come è ben noto – la parlata di San Martin de Tor (San Martino) e dintorni nella bassa Val Badia (o Badia settentrionale), in quanto gli abitanti stessi con baié ladin intendevano e ancora intendono l’esprimersi nella loro parlata, che essi stessi ben avvertono diversa dalle altre parlate, pure affini, dei paesi circostanti (badiot in senso stretto si applica all’alta Val Badia). In senso meno stretto ladin vuole dire ladin + badiot, e in uno meno stretto ancora vuole dire ladin + badiot + mareo (della Valle del Marebbe, affluente del fiume Gadera, da San Vigilio a Longega). Il toponimo Ladinien che compare nel titolo del libro dell’Alton si riferisce a questa applicabilità meno stretta, e comprende, pertanto, l’insieme delle valli di Badia (da Pera Forada fino a Colfosco, escluso questo, se si vuole, avendo Colfosco gravitato per secoli nell’orbita gardenese di Selva ed essendo appartenuto da tempi remotissimi alla parrocchia di Laion) e di Marebbe (in tedesco usualmente Enneberg, che però aveva una applicabilità territoriale più vasta, in quanto comprendeva anche il territorio della Badia situato a destra del Gadera). L’aggettivo ladinisch, presente anch’esso nel titolo del libro, ha invece un senso più esteso (come anche in italiano) fino a comprendere l’insieme linguistico delle quattro vallate, per così dire, "sellane" (Badia, Gardena, Livinallongo e Fassa, così nell’ordine in cui figurano nel titolo, con Marebbe da aggiungere a Badia), e in un senso ancora più esteso comprende perfino l’ampezzano della vallata di Cortina (esiste inoltre, dall’Ascoli in poi, un significato di massima latitudine, che abbraccia grigionese, ladino dolomitico, comelicese compreso, e friulano).”

Lasciando da parte i complessi aspetti linguistici, troviamo nell’opera di Alton numerosi godibilissimi racconti ed informazioni d’ogni genere sulla vita nelle antiche valli ladine; fra le più curiose:

- un tempo, per andare dalla val Badia in val di Fassa si passava sempre dalla val Mezdì (strada più breve e diritta, ma molto più faticosa e pericolosa di quelle che aggirano il massiccio del Sella). Un giorno, però, il piccolo ghiacciaio che occupava il fondo della valle restituì una mano umana, e nessuno se la sentì più di percorrerla;

- l’antico santuario-ospizio della Santa Croce, sopra Pedraces, venne chiuso dall’imperatore Giuseppe II (1741-1790) perché i paesani vi si recavano spesso a scopi non esattamente liturgici; venne poi riaperto solo nel 1840;

- gli abitanti della valle di Tux (Zillertal, Austria) venivano d’estate in Ladinia per distillarvi (“bruciarvi”) acquavite di genziana;

- due ladini in visita a Venezia (seconda metà del ‘700?) si meravigliavano dell’assenza di bestiame in città, “fuorchè capre la mattina sulla piazza di S.Marco… le signore venivano con delle pignatte di rame e d’argento per mungerle”;

- nel 1792 a Corvara c’era un magistrato alla dogana con due soldati doganieri, uno dei quali era turco. In un primo tempo non ebbe urti coi locali, poi se la prese moltissimo per non essere stato invitato alla prima messa celebrata in paese, e cominciò ad insultare i cristiani. Alla fine si prese a tradimento una tremenda randellata in testa, che lo lasciò semivivo e di cui non riuscì mai a scoprire l’autore.

Passando alla raccolta di elementi leggendari, la prima cosa che si osserva è che Alton non sapeva assolutamente nulla dei Fanes (altrimenti non avrebbe certamente mancato di accennarvi). Ma anche di quasi tutte le altre leggende ladine oggi note, Alton non fa menzione. La prima conclusione che se ne può trarre è che a Colfosco la cosiddetta “comunità tradente” doveva essere rimasta sempre isolata, oppure già nel 1850 era a dir poco molto danneggiata. Tuttavia Alton ebbe numerosi informatori in tutte le valli ladine, in alcune delle quali la comunità tradente doveva al contrario essere ancora ben viva; eppure egli mancò di venire a conoscenza di molti motivi, raccolti invece più tardi tanto da de Rossi quanto soprattutto da Wolff. Non resta che concludere che, fosse sfortuna, mancanza di fiuto, mancanza di tempo, incapacità di guadagnarsi la fiducia dei narratori, o fosse perché i tempi non erano ancora maturi perché questi decidessero di aprirsi ad un estraneo, Alton non entrò mai in contatto attivo con le persone “giuste”, tanto che arrivò a concludere “ad onta di ciò le parole: “L’indagatore di tradizioni, l’istoriografo, vi troverebbe soggetti di riflessione a ribocco” non si possono ammettere che con grande riserbatezza”.

Ciò detto, non si può negare che il materiale folkloristico raccolto da Alton sia peraltro cospicuo. Certo, da’ una sensazione di incompletezza e soprattutto di sbiadimento, di confusione, come se si trattasse di vecchie storie raccolte affrettatamente ed ormai solo imperfettamente conosciute e soprattutto comprese. Non si può non segnalare, ad esempio, il “cèst de éves” erroneamente interpretato come “alveare” anziché “cesto di uova”, come sarebbe evidente già dal contesto stesso della leggenda (Primi principi della valle di Fassa; errore dell’informatore, o incomprensione fra i due?); a proposito delle uova, cfr. la medesima leggenda raccolta da de Rossi, ed anche le considerazioni di M. Maticetov e quelle di S. de Rachewiltz in Mondo Ladino, IX (1985), n.3-4. Va tuttavia affermato che Alton trascrisse con assoluta fedeltà intellettuale tutto e solo quello che gli veniva riferito, senza permettersi la minima delle licenze poetiche – a volte sesquipedali – che Wolff invece dichiaratamente si concesse senza ritegno.
Veniamo ad alcuni tra gli elementi folklorici più importanti di cui Alton ci riferisce, sorvolando su altri come streghe e stregoni, che ci porterebbero in direzioni ininfluenti agli scopi di questo sito:

a. Gannes e salvans
Alton tratta di “ganne” e “silvani” in quattro punti: nella prefazione, nel paragrafo “Le Ganne ed i Silvani”, nei “Primi principi della Valle di Fassa” ed infine in “Tarata e Taraton”.
Egli afferma che le gannes sono le donne dei salvans. Gente mansueta ed innocua, se offesi o maltrattati possono però vendicarsi in modo terribile. Piuttosto pelosi, di statura umana ordinaria ma di forza gigantesca, essi dimorano nelle grotte e tra le rocce. Si nutrono di selvaggina, ma sono sempre orribilmente affamati. Coperti di pelli di belve, lupi, orsi e buoi selvatici, d’inverno hanno molto freddo e vengono volentieri tra le persone, a riscaldarsi accanto al fuoco. Accettano regali, particolarmente di cibo, ma non ne chiedono mai; parlano poco ed imparano con gran fatica qualche parola di ladino. Hanno una paura terribile del tuono ed osservano attentamente gli atti degli uomini per imitarli a casa propria. Amano molto le pecore, e a volte aprono le porte degli ovili per portarle a pascolare di notte. Le gannes, che si vedono in realtà molto più spesso degli uomini e sono di un’indole più affabile e meno selvatica, sono abili anche nei lavori domestici, nei quali assistono sovente le massaie ladine.

Queste notizie Alton dovette apprenderle nell’ambito della sua stessa famiglia, che doveva essere particolarmente erudita in materia, visto che abitava a Pezzedi, uno dei luoghi dove ganne e silvani si erano fatti vedere più di frequente. Essi (peraltro ormai estinti da tempo) abitavano infatti in modo particolare sul Puez e sui prati intorno, e dunque d’inverno, sopraffatti dal freddo e dalla fame, scendevano soprattutto a Longiarù (si voleva anzi che gli abitanti di Longiarù fossero proprio discendenti dei silvani) ed a Pezzedi. Anzi, una volta un uomo di Pezzedi aveva sposato una ganna di bell’aspetto, che si era rivelata ottima moglie e madre; ma quando l’uomo aveva accidentalmente violato il tabù di non toccarla mai col dorso della mano, se ne era andata via immediatamente, in lacrime, per non farsi vedere mai più.

In val di Fassa, al posto di al posto di gannes e salvans si hanno vivenes e vivans. Condividono quasi tutti gli attributi dei primi, ma sono destinati a vivere fino alla fine del mondo (da cui il nome) ed hanno la facoltà di rendersi invisibili. Le vivane sono inette alla tessitura e rubacchiano pannolini e vestiti.
In Fassa però vivono anche bregostans e bregostenes, sulla cui indole si hanno notizie abbastanza contrastanti. Pare ad esempio che le bregostene rubino i bambini, o meglio li scambino con i propri; ma non fanno loro nulla di male, ed a certe condizioni sono disposte a restituirli. Il loro nome proprio sembra essere sempre Taraton per i maschi e Tarata o Taratona per le femmine; nomi che Alton propende a far derivare da Wotan. Egli osserva che in principio i bregostans dovevano essere buoni come i salvans e gli sembra che la gente confonda tra loro vivene e bregostene; conclude supponendo che si tratti delle stesse identiche figure, il cui lato buono e rispettivamente lato cattivo hanno finito per assumere tra il popolino dei nomi diversi. Per l’etimologia di bregostan, Alton propone una derivazione da breogo o bregostol, parole che ricorrono p.es. nel Beowulf ed indicano “capo, re” (forse da praepositus).

Alla Valle, gannes e salvans si chiamavano pantegannes e pantegans. Non sembra che a nessuno, né ai paesani né ad Alton stesso, sia mai occorso di pensare che, all’origine di questa strana deformazione del nome ladino originario per assonanza con un termine esotico (pantegana significa “grosso ratto” e viene dal dialetto veneto; il nome deriva dal greco pontykòs, ossia “proveniente dal Ponto” ed è quindi stato portato a Venezia assieme alle navi che commerciavano col Mar Nero, presumibilmente non prima delle Crociate) non può non esservi stato un qualche tipo di burla, i cui effetti sono ormai destinati a rimanere per sempre.
Ad ogni modo le caratteristiche di questi silvani dal nome inconsueto non si discostavano molto da quelle delle loro controparti alto-badiotte o fassane. Storpiavano malamente il ladino chiedendo ai contadini qualcosa da mangiare: “Puca latta, puco pan”. Sempre alla Valle, era viva la storia (che si trova anche nella val di Fassa di de Rossi) del “pantegan” cui un contadino chiude con la frode le mani in un ceppo, dopo avergli detto di chiamarsi “Istesso” per evitare la reazione dei suoi compagni, secondo una variante del mito di Ulisse e Polifemo.

Considerazioni generali su anguane e salvani compaiono altrove in questo sito. Aggiungo alcune osservazioni specifiche:

- che le anguane non siano affatto le mogli dei silvani è oggi dimostrabile abbastanza facilmente (basti pensare al ben diverso areale in cui sono diffuse le due figure, nessuna delle quali è autoctona delle Dolomiti, ed alla diversa funzione che esse svolgono nelle leggende);

- è tuttavia evidente che in val Badia questo è quello che la gente credeva. Si osservi però che il legame con l’acqua e col sacro, ancor oggi vivissimo nel Veneto, ben chiaro in varie leggende ladine – tra cui la saga dei Fanes – e riscontrabile in tracce nelle stesse tradizioni fassane raccolte da Alton (immortalità, invisibilità; nella leggenda dello Snigolà la stessa donna Quelina è detta essere una vivena!) è in Badia completamente assente. Sembra dunque assai probabile che del significato primitivo delle gannes vi si fosse persa ogni traccia, e che queste, pur conservando il nome originario, fossero platealmente confuse con le salvarie (delle quali in Alton non si fa cenno): queste sì, a buon diritto le donne dei silvani;

- l’accenno al fatto che i salvans si vestissero con pelli (anche) di bue selvatico fornisce un appiglio per datare in via molto approssimativa le notizie fornite da Alton; infatti l’uro (Bos taurus primigenius) scomparve dall’Europa occidentale nel XIII secolo. Ovviamente ciò non basta a stabilire quando l’uro si sia estinto nelle Dolomiti (potrebbe essere accaduto sia molto prima che poco dopo) e meno ancora quando si siano estinti i silvani (che avrebbero potuto sopravvivere benissimo vestendosi con le pelli di altri animali), tuttavia chiarisce che le informazioni tradizionali badiotte su gannes e salvans risalgono quanto meno al Duecento;

- il quadro delle notizie sui silvani, così come erano noti a Pezzedi, appare compatto, coerente ed estremamente realistico. Si potrebbe affermare con una certa tranquillità che, se i silvani fossero veramente vissuti, avrebbero sicuramente lasciato una traccia di sé nella memoria dei paesani non dissimile da quella che effettivamente vi ritroviamo. Ciò naturalmente non basta, in sé, ad affermare che essi siano certamente esistiti, ma ne costituisce quanto meno un forte indizio; per ulteriori considerazioni, rimando nuovamente alla trattazione specifica.


b. L’Orco
L’orco è un demone che può assumere qualsiasi forma gli piaccia. Può sembrare un cavallo, ed indurre l’incauto a montargli in groppa, dopodichè si ingrandisce a dismisura e lo conduce in una selvaggia galoppata attraverso le regioni del cielo; infine lo riporta, esausto, lacero e sanguinante, al punto di partenza. Oppure assume le sembianze di una piccola palla; non appena un viandante lo supera, inizia a rotolargli dietro ingrandendosi sempre più e correndogli appresso sempre più velocemente, finchè quello non crolla al suolo spossato. O anche fa perdere completamente la strada, facendo perdere ore su ore a districarsi da passaggi difficili e pericolosi, per poi ritrovarsi al punto di partenza. Sembra dunque che la sua specialità siano le burle, in verità piuttosto pesanti; e in effetti è noto anche per far sparire qualche capo dal pollaio, o la biancheria, o il latte; ed esprime il suo compiacimento per per uno “scherzo” ben riuscito emettendo alte risate e grida sataniche. Guai però a farsi beffe di lui, o a replicare al suo grido: allora si scatena, e per il temerario possono essere guai seri, se non riesce ad entrare in tempo in una casa, perché per l’orco le case sono tabù. Per il resto può apparire dappertutto, anche se predilige alcune località selvagge, grandi boschi o passi montani. Sembra essere anche correlato al tempo atmosferico, dato che può suscitare temporali e bufere, e freddo gelido nel cuore dell’estate. Alcune delle sue vittime sono state sollevate e sbalzate lontano da folate di vento improvviso. Infine, quando se ne va, lascia dietro a sé una puzza insostenibile, da cui il detto “puzzare come l’orco”.
L’orco è comunque uno degli esseri che più hanno inciso nella fantasia dei badiotti, e un elevato numero di aneddoti raccolti da Alton verte su di lui.

c. Il Báo
Se l’orco è un temibile, perfido burlone, il Báo è ben peggio. Alton lo accomuna a Wotan che dirige la “caccia selvaggia” dei popoli nordici; appare nella forma di un gigante nerovestito che afferra i malcapitati, li trascina attraverso l’aria e se li porta direttamente all’inferno. La sua importanza folklorica è tuttavia molto minore di quella dell’orco; visto che le sue prede sono in genere ragazzi disobbedienti, non è difficile pensare che sia stato “inventato”, o almeno preservato, al solo scopo di mantenere l’ordine terrorizzandoli. Potrebbe quindi facilmente imparentarsi al Wauwau austriaco od al babau italiano. Tuttavia anche uno spettro che frequenta una casa di Corvara viene definito "un Bao".


d. Il Pavarò
Il Pavarò è un demone cinocefalo d’orrido aspetto che sta a guardia dei campi, soprattutto quelli di fave; possiede un falcetto d’oro che affila continuamente, col quale taglia le gambe ai ragazzi che si inoltrano nel suo territorio, in ciò agevolato dal possedere braccia lunghissime tipo “Tiramolla”. Sembra dunque un analogo virtuale ed antiuomo dello spaventapasseri, ed effettivamente, in badiotto, lo spaventapasseri è detto per l’appunto pavarò (pargaró in dialetto di Marebbe). Secondo de Rossi, in val di Fassa una figura del tutto analoga per aspetto e funzioni è detta pavarùk (manca però il significato parallelo di spaventapasseri). Lo stesso personaggio, chiamato Ganbarétol, si incontra a Falcade (D.Perco, C.Zoldan: Leggende e credenze di tradizione orale della montagna bellunese, Seravella 2001). Il nome del Pavarò sembrerebbe derivare senza tema di smentita dal latino pavor, paura (da cui l’italiano paura, ma anche spavento, pavido, spauracchio ecc.). Tuttavia nel folklore russo (!) si incontra un altro personaggio molto simile che sta di guardia ai raccolti e che si chiama polevìk (da polje = campo); un termine nemmeno troppo distante da pavarùk. Coincidenza? Come trait-d’union si può menzionare (da M. Maticetov, op. cit.) uno scongiuro sloveno in cui si intima alla nebbia di andarsene “perché nel campo c’è il nonno e ti taglierà le gambe”!

e. I draghi
I draghi non sono molto frequenti nelle Dolomiti; il più noto è quello legato alla leggenda del Gran Bracun, personaggio storico vissuto nel XVI secolo! Alton ne cita uno inchiodato sotto il Col di Lana ed i cui movimenti provocherebbero valanghe e frane. Più interessanti quelli che si troverebbero nelle profondità dei laghetti di montagna (Boè, Crespeina e Puez); in queste località si odono, in genere prima dei temporali, dei rumori simili a forti detonazioni (altrove vengono definiti “come dei tuoni lontani”). Si afferma che sarebbero i draghi che si preparano a solcare il cielo. Alton poi cita la credenza che i draghi prendano per la coda e trascinino sott’acqua il bestiame che pascola troppo vicino alle sponde, e nota la singolarità che i draghi ladini non siano mai posti di guardia a dei tesori. Si dice che a volte si vedano volare da un lago all’altro; nell’ottobre 1813 uno grandissimo, che faceva una terribile luce infuocata, trasvolò sopra la Gardenaccia e scomparve in direzione della Baviera.
Mentre per quest’ultimo caso (e forse altri che lo precedettero) non è difficile parlare di un bolide, la causa dei rumori sinistri potrebbe essere, visto che tutti i suddetti laghi sono situati in zona carsica e dotati di affluenti e defluenti sotterranei, l’improvviso aprirsi o chiudersi di un sifone al variare della pressione esterna e/o delle portate interne del sistema idrico.

f. El Vènt e el Snigolá
La storia dello Snigolá è ancora la favola (presente sia in Germania che in Italia, e quindi presumibilmente non autoctona) che Wolff inserì nel ciclo dei “Figli del Sole” come seconda parte della storia di Cian Bolpin, e che ritroviamo anche in de Rossi, ma autonoma e priva di qualsiasi collegamento al ciclo summenzionato (utilissime le note di U.Kindl al testo di de Rossi in Fiabe e leggende della val di Fassa). In Alton numerosi dettagli sono omessi, e persino il nome Cian Bolpin è del tutto assente.
Particolari notevoli:

- La protagonista è detta chiamarsi Donna Chelina anziché Chenina come in de Rossi ed in Wolff; manca dunque, oltre al nome totemico del Cian (Cane), anche la sua eco nel nome della donna-di-un-altro-mondo. Ulrike Kindl riconosce in Chelina la trasposizione di Aquilina, presente nella versione italiana della favola. Chenina non ne sarebbe dunque che una storpiatura, forse agevolata proprio dalla presenza dell’animale totemico.

- Donna Chelina viene definita una vivena, conferendo a questa tipologia folklorica una sacralità forse persino eccessiva;

- L’innominato pastore protagonista, dopo le nozze diventa un vivàn. Sono propenso a credere che questa interpretazione del vivàn sia fondamentalmente corretta: i vivani, cioè, non sono la controparte maschile delle vivane, ma i mortali che – eccezionalmente – sposano una vivana e si trasferiscono nel loro mondo (in accordo al modello di Morgana, e non a quello di Melusina). Ciò accade anche ad altri personaggi delle leggende dolomitiche, e giustifica la marcata dissimmetria tra vivano e vivana, nonché l’asserzione di un informatore di de Rossi che “del vivano si sa poco o nulla”;

- quando acquisisce (rubandolo a dei ladri!) il mantello magico per volare (lo Snigolá, che significa “annuvolato”), il protagonista diventa egli stesso “lo Snigolá”, come se si trattasse di un titolo, o di una funzione, spettante a chi indossa quel grigio mantello di pelliccia; e con questo ottiene il controllo del tempo atmosferico, in particolare la capacità di generare nebbia, nuvole e pioggia;

- il genio del vento viene definito “un bregostan”, anche se non ha nulla a che spartire coi bestiali bregostani stupidi e sanguinari delle leggende più tarde. In questa accezione, la derivazione etimologica da “praepositus” sembra molto più facile da accettare. Possibile che ci sia stata una trasmigrazione del nome da una figura primordiale alle altre, ben diverse, successive?

- Lo Snigolá combatte il bregostan del vento (uno genera nuvole, l’altro cerca di soffiarle via); alla fine vince l’Annuvolato, e il risultato è una pioggia torrenziale. Sembra di sentire l’eco di un mito, a cavallo tra animismo e politeismo, di cui non ci è rimasto null’altro.

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