La
saga dei Fanes - Gli studi sulla leggenda
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I
Ladini
Sono
gli abitanti originali delle Dolomiti. Stretti fra italiani
e tedeschi, sono oggi circa trentacinquemila persone. Parlano
una lingua neolatina, detta per l'appunto il Ladino, che è
divisa in tanti dialetti quante sono le valli ma possiede chiare
affinità col friulano e col romancio dei Grigioni. Un
tempo doveva essere diffusa in tutte le Alpi centrali ed orientali.
Con
un DNA molto
diverso da quello dei popoli loro vicini, ma anche molto differenziati
al loro stesso interno, costituiscono un vero rompicapo per
i genetisti. Discendono certamente da una popolazione che i
Romani chiamarono Reti, che subì varie infiltrazioni
celtiche e latine anche prima dell'inizio del medioevo, quando
fu compressa e spezzettata da Franchi, Baiuvari, Slavi e via
discorrendo.
Pur
tenacemente attaccati al loro linguaggio ed alle loro tradizioni,
i Ladini nei secoli si trovarono a mal partito tra l'incudine
ed il martello di due poderose culture come quella italiana
e quella tedesca, fin quasi a perdere persino l'orgoglio della
loro identità di popolo. Solo verso la fine dell'Ottocento,
nell'epoca dei nazionalismi, qualcuno iniziò a riscoprire
e rinobilitare le antiche costumanze, parte essenziale delle
quali era costituita dalle leggende.
Tramandate
oralmente da una generazione all'altra, in un ambiente in cui
la parola scritta era pressocchè inesistente, al più
limitata agli atti ufficiali e per di più in un linguaggio
forestiero, le leggende si erano mantenute a lungo quasi intatte.
Pur avversate dalla Chiesa controriformistica, finirono poi
per declinare solo sotto l'incalzare dell'alfabetizzazione;
alla fine dell'Ottocento la cosiddetta "comunità
tradente" si era quasi estinta e ormai solo pochi vecchi
ricordavano frammenti più o meno lunghi di quanto un
tempo era stato un corpus organico e compatto. Tra
i precursori che iniziarono il faticoso processo di recupero,
si possono segnalare tra gli altri i fassani don Giuseppe Brunel
e Tita Cassan, ed il gardenese Wilhelm Moroder-Lusenberg. Vediamo
ora in qualche maggiore dettaglio i personaggi più significativi.
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Hugo
de Rossi
Ugo
o Hugo de Rossi o Hugo von Rossi [de Santa Juliana](1875-1940)
nacque in val di Fassa, perse un braccio nella prima guerra mondiale
e visse poi ad Innsbruck fino alla morte. Nel 1912 raccolse le
sue Fiabe e leggende della val di Fassa - I Parte, oggi
pubblicate nella versione tedesco-ladina ed italiano-ladina dall'Istitut
Cultural Ladin "majon di fashegn" di Vigo di Fassa
(1984, a cura di Ulrike
Kindl). Purtroppo non seguì mai una seconda parte,
che pure era nelle intenzioni dell'autore ed avrebbe dovuto contenere
molto materiale relativo alle leggende della cosiddetta "trilogia
fassana" compilata da Wolff.
Da
onesto ed attento studioso del folklore, pur senza considerarsene
un esperto, de Rossi trascrisse tutto ciò che gli veniva
raccontato, senza permettersi variazioni ed anzi annotando con
cura le eventuali diverse versioni riscontrate. La sua raccolta
è di valore inestimabile, ad esempio, per le tradizioni
legate alla Fassa pre-romana,
alla conquista romana,
alle anguane ed ai salvani;
anche Wolff, che era in contatto con lui,
vi attinse parecchi elementi. Purtroppo per i nostri scopi, i
passi in qualche modo attinenti al regno dei Fanes risultano
di scarsissima entità.
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Karl
Felix Wolff
Nacque
nel 1879 a Karlstadt, oggi Karlovac in Croazia, da un ufficiale
austriaco e da Lucilla von Busetti, originaria della val di
Non. Trasferitosi con la famiglia a Bolzano ancora bambino,
Wolff sentì raccontare le prime leggende ladine da un'anziana
bambinaia della val di Fassa. Più tardi ebbe i primi
contatti con alcuni Ladini che si sforzavano di riportare in
auge l'uso della loro lingua e le loro tradizioni: Cassan, de
Rossi, Moroder-Lusenberg. Divenuto giornalista e scrittore,
non cessò mai di percorrere le Dolomiti, taccuino alla
mano, interrogando i popolani, in modo particolare gli anziani,
nella speranza che gli riferissero qualche nuova leggenda o
qualche nuovo particolare. Dapprima concentratosi sulla più
vicina e più familiare val di Fassa, estese poi le sue
ricerche a tutte le altre valli dolomitiche, spingendosi fino
al Cadore ed all'Alpago. Morì a Bolzano nel 1966.
Pubblicò
a più riprese i risultati delle sue ricerche , fino a
comporre una trilogia (I monti pallidi; L'anima delle Dolomiti;
Rododendri bianchi delle Dolomiti), apparsi in più edizioni,
a volte con nomi diversi, su un lunghissimo arco di tempo. Oggi
sono pubblicati in traduzione italiana da Cappelli (Bologna)
e nell'originale tedesco da Athesia (Bolzano). Pubblicò
inoltre una vasta congerie di articoli su periodici diversi,
più vari opuscoli e libriccini. Chi fosse interessato
alla sua bibiliografia completa può consultare Ulrike
Kindl (1983): Kritische Lektüre der Dolomitensagen
von Karl Felix Wolff, Band I: Einzelsagen, Istitut Cultural
Ladin "Micurá de Rü", San Martin de Tor.
L'importanza
del lavoro di Wolff per il salvataggio ed il recupero delle
antiche leggende ladine può difficilmente essere sopravvalutata.
E' molto probabile che, senza di lui, oggi dei Fanes non ci
rimarrebbe praticamente nulla. Tuttavia, sfortunatamente,
Wolff non seguì una metodologia rigorosa e non si sforzò
affatto di archiviare il materiale raccolto così come
lo aveva sentito raccontare. Sentendosi scrittore e poeta (e
forse, da uomo di cultura, buon tedesco e tedescofilo, anche
un tantino superiore), in buona fede tentò a
fin di bene di restaurare e ricomporre, senza peritarsi
di distorcere un tantino la storia e a volte persino di inserire
qualche tassello mancante, pur di ottenere (inconsciamente?)
che il risultato si avvicinasse di più al quadro generale
che lui aveva in mente. La sua mano è spesso
visibile e quindi le parti "restaurate" sono facilmente
asportabili, ma rimane sempre il dubbio che, sotto sotto, rimanga
qualcosa di travisato o non completamente originale.
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Karl
Staudacher
Figlio
di un albergatore di Brunico, Karl Staudacher (1875-1944) ascoltò
da bambino i racconti del regno dei Fanes da alcune ragazze badiotte
a servizio dal padre. Avendo dimostrato grande propensione agli
studi, divenne prete e lavorò in varie parrocchie, mai
purtroppo in zone che gli consentissero di raccogliere altro materiale
sui Fanes. Nel 1921 entrò in contatto con Karl Felix Wolff,
cui mise a disposizione molti elementi fondamentali che erano
noti in val Badia ma non in Fassa, e che stanno alla radice stessa
della leggenda (marmotte, avvoltoi, gemellaggi...). E' stata la
sua testimonianza a rendere accessibile l'interpretazione del
significato etnologico del Regno dei Fanes. Purtroppo
non era affatto uno studioso di antropologia, e nemmeno un vero
appassionato del folklore: a lui i Fanes interessavano primariamente
come epigoni dei Nibelunghi. Ci ha lasciato infatti un noiosissimo
poema epico in perfetti versi tedeschi, Das Fanneslied
(1928; disponibile in ediz. Tyrolia, Innsbruck-Vienna 1994). In
esso Staudacher segue pressocchè puntualmente la ricostruzione
della vicenda compiuta da Wolff, tuttavia
spingendosi talvolta in direzioni sorprendenti, sulla scorta anche
di mirabolanti ingenuità etimologiche. (Per esempio, egli
fa derivare Duranni da Tirreni, identificandoli
quindi con gli Etruschi e ponendo la patria di Ey-de-Net nei pressi
di Firenze; parallelamente identifica i Caiutes con i
Celti - il cui regno aveva per capitale Brescia!).
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K.
Staudacher ritratto da J.B.Oberkofler
(da Das
Fanneslied, ed. Tyrolia, op.cit.)
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Angel
Morlang
Angel
Morlang (1918-2005) nacque a Pieve di Marebbe e trascorse l'intera
esistenza nelle valli ladine. Anch'egli, come Staudacher,
fu ordinato prete. Ebbe molteplici interessi, ad esempio amò
molto dipingere. Nel 1951 pubblicò in ladino di Marebbe
"Fanes da Zacan" ("I Fanes di una volta"),
ristampato nel 1978 a cura dell'Istitut Ladin "Micurá
de Rü" di San Martin de Tor.
Si
tratta di un testo destinato a costituire la sceneggiatura per
un dramma popolare all'aperto, come Wolff
(che lo salutò con gioia e commozione) aveva più
volte auspicato. Esso venne effettivamente rappresentato più
volte, alla Valle ed a San Vigilio di Marebbe. Morlang riprende
sostanzialmente la versione di Wolff, tuttavia
con alcune notevoli eccezioni (p.es. Spina-de-Müsc
in luogo di Spina-de-Mul, l'avvoltoio che riprende
il posto usurpato dall'aquila...). Alcune divergenze possono
essere legate solo a necessità sceniche, altre possono
far intravedere un'effettiva diversa tradizione badiotta (p.es.
l'unica campagna dal Pralongià alla Furcia dai Fers),
altre ancora sono probabilmente soltanto travisamenti da buon
cristiano, come Dolasilla sepolta da Ey-de-Net. I pistolotti
moraleggianti da parroco di montagna sono purtroppo evidenti
e disseminati senza parsimonia.
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La
critica moderna
Wolff
a parte (che ne percepì l'importanza, ma non ne ebbe
un quadro molto chiaro), la prima a rendersi conto delle implicazioni
antropologiche della leggenda dei Fanes fu, per quanto mi risulta,
Kläre French-Wieser, che nel 1974 pubblicò
un articolo, “Il regno dei Fanes – una tragedia
del matriarcato” sul periodico di Bolzano "Der Schlern".
La
figura chiave degli studi moderni su de
Rossi, Wolff e le loro raccolte
è tuttavia Ulrike Kindl. Docente di
lingua e letteratura tedesca all'Università di Venezia,
perfettamente padrona delle tre lingue, ladino, tedesco ed italiano,
ha curato tanto l'edizione delle fiabe e leggende raccolte da
de Rossi (1984), quanto il convegno (1985)
svoltosi a Vigo di Fassa sul medesimo argomento. E' sicuramente
la massima esperta vivente di leggende dolomitiche. Autrice
di molti libri, tra cui Kritische Lektüre der Dolomitensagen
von Karl Felix Wolff, Band I: Einzelsagen (1983) e Kritische
Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff, Band II:
Sagenzyklen (1997), ha dissezionato l'intera produzione
letteraria di Wolff commentandola con grande
profondità di pensiero.
Il
prof. Giuliano
Palmieri, di Treviso (1940-2007), autore di numerose
indagini archeologiche, ha scritto assieme al figlio Marco I
regni perduti dei Monti Pallidi (1996), in cui approfondisce
diversi aspetti delle leggende ladine, ed in particolare esplora
con acutezza numerosi dettagli del Regno dei Fanes. Ha
poi pubblicato Le antiche voci dei Monti Pallidi (2002),
dedicato in prevalenza ad argomenti diversi, pur di grande interesse
culturale ed antropologico, ma in cui si trovano vari spunti
strettamente legati alle leggende raccolte da Wolff.
Nel
2000 il professore austriaco Helmut Birkhan,
dell'Università di Vienna, ha presentato un saggio al
convegno AD GREDINE FORESTUM 999-1999. In esso, dopo aver analizzato
le analogie con altri motivi leggendari europei, egli tenta
un'interpretazione "storica" della leggenda, senza
spingersi in eccessivo dettaglio, ma concludendo per la genuinità
ed antichità del nocciolo "antropologico" della
medesima.
L'anno
successivo Veronica
Irsara, di San Cassiano, si è laureata sostenendo
una tesi sui Fanes, in cui tenta un originale compromesso fra
il "metodo soggettivo" della prof.ssa Kindl e quello
"oggettivo" del prof. Palmieri.
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