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La saga dei Fanes - approfondimenti

La val di Fassa preromana

La principale fonte leggendaria sulla val di Fassa preromana è la raccolta di H. de Rossi, che le dedica un paio di capitoli, raccolti indirettamente da un anziano informatore rimasto anonimo. Qui faccio una sintesi dei testi ladini e dei loro corrispondenti in italiano, di solito meno ricchi. Tuttavia le interessanti notizie che ne ricaviamo non sembrano quagliare molto bene con i dati archeologici oggi disponibili. Va comunque osservato che sembra trattarsi di una testimonianza singola, sulla cui validità si potrebbero nutrire dei dubbi.


Compendio del testo
 
Commento

Al posto della chiesa di Santa Giuliana c’era un maestoso castello con tre torri, che simbolizzavano le tre valli alleate: Fassa, Ega, Livinallongo e san Nicolò. Forti erano le mura e nei loro cunicoli si conservavano molti attrezzi bellici. Da fuori del castello si vedevano solo le feritoie. La torre più grande, quella di Fassa, era dipinta di giallo e verde, i colori di Vigo. Sotto un tetto (kuert) appoggiato a quattro pilastri di pietra ardeva perennemente il fuoco sacro. A difesa c’erano molti valli circolari. Dentro i valli non si seminava e non si piantavano alberi, ma nemmno si poteva toglierli: era un luogo sacro dove si seppellivano i morti.

 

La chiesa di Santa Giuliana si trova su un bellissimo terrazzo un quarto d'ora di cammino sopra Vigo di Fassa. La chiesa è quattrocentesca, ma costruita su edifici molto più antichi. La prima chiesa sembra essere stata costruita prevalentemente in legno e risalire ad attorno al X secolo. Vi sono però anche resti dell'età del Ferro, datati al IV secolo A.C. e riferiti ad un deposito cultuale. Non è stata però trovata traccia (finora?) di un castello, o meglio castelliere, nè di unità abitative limitrofe.

Si noti che le valli simboleggiate dalle torri sono quattro, come i tre moschettieri; evidentemente una è spuria. La valle di san Nicolò (menzionata solo nel testo ladino, non nella traduzione italiana) non sembra poter essere stata abitata densamente come le altre, almeno in un recente passato, però sbocca in val di Fassa molto vicino a Vigo; anche la val d'Ega è prossima, mentre geograficamente il popoloso Livinallongo è nettamente più lontano, e lo è rimasto anche politicamente fino ad oltre il Mille, quando le valli rientrarono tutte nei possedimenti del vescovo di Bressanone. Ho la sensazione che in tempi protostorici la triade fosse quella di Fassa, Ega e San Nicolò; nel Medioevo, ormai da tempo decaduta quest'ultima, le si sostituì il Livinallongo per sottolineare i legami etnici e linguistici e forse anche per azzittire per sempre le aspre frizioni del passato.

 

Nel castello risiedeva il comandante. Ogni uomo libero riceveva dall’assemblea popolare un punto o una stella rossi ad ogni azione straordinaria; chi ne aveva di più diventava il comandante in guerra ed il giudice in pace. Oggi il luogo dove si sarebbe trovato il castello si chiama Ciaslier.

Sembra si voglia mettere in particolare risalto l'assoluta democraticità della scelta del comandante. La credibilità della leggenda è peraltro tutta da dimostrare.

Il nome della località, che significa evidentemente Castelliere, si ripete (nella forma Castelir) nel castelliere di Bellamonte, nella vicina val Travignolo, abitato nell'età del Ferro e forse anche del Bronzo. I castellieri, fortificazioni o villaggi fortificati costruiti sulla cima di un colle e difesi essenzialmente da un ampio vallo di pietre a secco, sono tipici p.es. dell'Istria e della Venezia Giulia; il toponimo è presente anche altrove nelle Dolomiti. Si osservi che la struttura difensiva di un castelliere è completamente diversa da quella attestata a Sotciastel in val Badia (fosso e terrapieno sormontato da una palizzata)
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Fuori le mura c’era un grande abitato che disponeva di quattro cisterne, due delle quali ancora visibili, ma un giorno fu sepolto da una frana e gli abitanti si trasferirono più in basso, dov'è il paese attuale. Le case erano ad un sol piano, senza finestre né camino. Erano tonde, costruite in pietra con le connessure tappate con muschio e terra. Il tetto era costruito con frasche e ramaglie. L’ingresso era così basso che per entrare bisognava strisciare carponi. In mezzo c'era un focolare di pietra che non veniva mai spento, perché per accenderlo bisognava sfregare due legni tra di loro finchè si accendeva la scintilla. Il fumo poteva uscire solo dalla porta. Lungo le pareti si trovavano grosse pietre usate per sedersi. Il villaggio si chiamava Chiusil.

 
La tipologia costruttiva delle abitazioni qui descritte non corrisponde affatto a quella degli abitati preromani della val di Fassa di cui è rimasta traccia (Doss dei Pigui, Pian dei Crepei), dove le case erano in legno, quadrate e costruite con la tecnica del blockbau (travi disposte a rettangolo, con le estremità incastrate l'una nell'altra, in strati sovrapposti). Se applichiamo la tecnica descritta, in pietre a secco, anche alla fortezza ed alle sue torri, quello che ci appare alla mente è... un villaggio nuragico! Vi è un altro accenno leggendario ad una fortezza circolare in pietre a secco in val di Fassa (Kindl, 1997); si riferisce all'alta val Mortic, dove un tal condottiero detto Molares avrebbe a lungo combattuto contro un esercito straniero comandato da Dolasilla (!): evidentemente un nuovo caso di omologazione di personaggi diversi sul medesimo archetipo. Perchè la testimonianza raccolta da de Rossi, sia o meno l'eco di una vera leggenda popolare, racconta di qualcosa che apparentemente in Fassa non sembra essere mai esistito? Forse qualcuno, in un lontano passato, aveva visto i resti di Bellamonte (o altri) ancora in piedi ed aveva estrapolato i concetti costruttivi anche a questo villaggio? Certo è che non poteva esserseli inventati di sana pianta, con quei particolari del tutto realistici, ma assenti in val di Fassa! C'è ancora molto spazio per nuove ricerche, sia archeologiche, sia sul folklore.


Sotto e un po’ di fianco al Ciaslier si trova il Col de Me, dove a maggio si faceva ogni anno una grande festa. Nel mezzo c’era un altare di pietra attorno al quale i fassani danzavano in tondo ornati di fiori. Dal vicino “Col de Sas della Vea” un sacerdote cantava un’antichissima canzone:

"Nos doben bibe vu
A nom de Numa l sas
A nos l ton e pabol asà
Pos mort l Elis a du

Ant Tinarez abu
Peppe tor pikol coà
N barat les bot
Taf e slap garà."

La festa si teneva sotto un gran peccio durante una regola (=assemblea) generale che durava otto giorni, assieme agli alleati (Fodom, Ega, S.Nicolò). Ogni giorno al levar del sole gli uomini si riunivano per deliberare di giustizia e di difesa comune, si nominavano i capi militari di ciascuna vallata, e si dipingevano punti e stelle sugli scudi dei guerrieri. Dopo mezzodì facevano un segnale col corno che la gente poteva venir su. Tutti correvano per vedere il sacrificio. Si uccidevano due o tre vitelli e poi si ballava e cantava e pregava e si facevano gare e giochi. Si bruciava un pupazzo di paglia; la tradizione continuò anche dopo la cristianizzazione, ma col solo pupazzo e senza l'altare. Adesso c’è la processione di san Vito, ma a Carnevale si brucia ancora il pupazzo di paglia. Si dice che sul Col de Me sia stato massacrato anche un predicatore cristiano.

 

 

La descrizione della festa pagana, certamente un rito di inizio dell'anno agricolo di tradizione antichissima, è sostanzialmente credibile, tanto più che sembra esser durata molto a lungo (probabilmente dovette essere proibita solo con la controriforma).

Il linguaggio della canzone, che può essere paragonato ad altri frammenti ricordati dalle leggende fassane, è un interessantissimo proto-ladino, in cui molti vocaboli sembrano in un latino molto storpiato. Lo stesso de Rossi ebbe molte incertezze nel trascriverla (esistono numerose versioni che differiscono tutte per alcuni piccoli particolari; vedi le note di U. Kindl in H.de Rossi, 1984).

La prima strofa potrebbe forse (tentativamente) tradursi:

"Noi dobbiam bere vino [debemus bibere vinum?];
Al nome dei Numi la brocca di pietra (l sas),
A noi la salute (ton) e cibo [pabulum] a sufficienza (asà),
Dopo la morte l'Eliso a tutti."

La seconda strofa mi lascia ancora più incerto. "Tinarez" sembra un'invocazione a due distinte divinità, Tina e Rez; per la prima è stata invocata un'assonanza col dio etrusco Tinia, per la seconda con la venetico/retica Reitia, venerata ad Este (ancora U. Kindl).
"Peppe" (o "pepe") mi risulta del tutto misterioso. "Tor pikol coà", forse lett. "prendere una piccola covata" potrebbe riferirsi ad un sacrificio agli dei di animali giovani, anche perchè "n barat" dovrebbe significare "in cambio"; les bot non è chiaro, ma in altre versioni è sostituito da bez o tos, che dovrebbero significare "ragazzi" e dunque "prole" (??), mentre "taf e slap" dovrebbero essere qualcosa come "cibo e bevande" e "garà" vuol dire certamente "a disposizione".

Dunque, forse, a senso, e non senza qualche lacuna::

"Davanti a Tina e Rez offriamo un sacrificio di giovani animali;
In cambio [riceviamo] prole,
Cibo e bevande a disposizione."

(Col più ampio beneficio d'inventario).
Si noti che le due strofe pare abbiano un significato abbastanza sovrapponibile; la prima presenta una maggioranza di vocaboli riconducibili al latino, mentre quelli della seconda sembrano prevalentemente di origine retica. Si tratta forse della sovrapposizione di due invocazioni analoghe, ma di origine distinta?

Quando arrivarono i Romani, I fassani opposero una tenace resistenza. Molti preferirono uccidersi; le donne, che resistettero più degli uomini, esauriti gli altri proiettili gettarono i figli in faccia al nemico. Prima di fuggire in montagna, i fassani bruciarono tutto e "Munez", il perfido condottiero romano, trovò soltanto rovine fumanti.
 

U. Kindl segnala che questa "leggenda" è in realtà ripresa dal racconto dell'annalista romano Anneo Floro (che non si riferiva alla val di Fassa, ma genericamente a popoli del Norico) e quindi probabilmente è di derivazione dotta e non un'autentica tradizione popolare.
"Munez" potrebbe voler essere Lucio Munazio Planco, un grande generale ed insigne uomo politico romano, fedelissimo di Cesare e poi di Ottaviano, che, tra l'altro, fu governatore della Gallia e vi fondò Lione. Munazio nel 44 A.C. sconfisse i Reti del Reno superiore, ma è alquanto dubbio che si sia scomodato ad intervenire personalmente per soggiogare la val di Fassa. Anche questa potrebbe dunque essere soltanto una tradizione dotta. Detto per inciso, la storia attesta però la presenza, nell'esercito romano impegnato sulle Alpi, anche di altri rappresentanti minori della famiglia dei Munazi.
Per la conquista romana della val di Fassa, vedi anche quanto detto in > Analisi > La trilogia fassana e in > Approf. > I Trusani.