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La saga dei Fanes - Analisi della leggenda

Leggende collegate

Qui di seguito alcune brevi note sulle leggende raccolte da Wolff e non appartenenti al ciclo dei Fanes, ma in cui compaiono dei riferimenti utili a chiarire alcuni degli argomenti trattati. Tra parentesi il volume e la pagina in cui il racconto compare, riferiti all'edizione riportata in bibliografia (MP = I monti pallidi; AD = L'anima delle Dolomiti; RB = Rododendri bianchi delle Dolomiti).

 

I monti pallidi (MP, p.15)
   
1. Gli spiriti della montagna: il principe crede di incontrare alcuni spiriti della montagna, di cui non mostra alcuna paura.

 
Indicazione di un sentimento religioso primitivo, animistico, in cui le divinità sono unicamente spiriti (pluralistici) delle manifestazioni naturali.

2. La storia dei Salvans: i Silvani chiedono di stabilirsi nelle Dolomiti: sono un popolo perseguitato che è stato semidistrutto e ridotto in prigionia nel loro antico paese d’origine, sito ad oriente.

 

 

Questa storia estremamente verosimile, ed in accordo con quanto sappiamo delle spinte migratorie alla fine del secondo millennio avanti Cristo, non può essere adattata ai Silvani, bensì si attaglia alle stesse popolazioni retiche. Queste però popolarono le Alpi centrali non chiedendo il permesso, ma cacciando i popoli preesistenti a vivere nelle selve. Si noti poi come Wolff in questa leggenda usi alternativamente il termine “nani” ed il termine “silvani” come se fossero in tutto e per tutto dei sinonimi, affermando anzi a chiare lettere che, secondo lui, “i Ladini chiamano Silvani i nani abitatori dei boschi e delle caverne”.

 

I fiori di Lagorai (MP, p.41)
   

1. Il lago sacro: tra i fiori del Lagorai vi è un lago, evidentemente di carattere sacro.

 

 

Un altro esempio di lago sacro in connessione con gli antichi culti del Bronzo - Ferro.
Conturina MP, p.57)
   
1. Il nome di Conturina: si colloca lessicalmente a cavalcioni tra “Contrin” e le “Cunturines”.
Di questo mito, quasi completamente perduto, è interessante ai nostri fini prima di tutto questo nome, che funge da ponte tra le due diverse lezioni del nome archetipico dell’agglomerato urbano di montagna e rafforza l’ipotesi che in origine si trattasse di una singola radice. Da notare come esso, pur legato all’attuale val Contrin, si trovi ancora una volta in relazione ad un mito probabilmente relativo alle miniere (cfr. sotto).

2. La prigioniera della montagna: Conturina è stata trasformata in pietra dalla matrigna; per i primi sette anni sarebbe stato possibile liberarla, ma ormai è per sempre prigioniera della montagna.

Riaffiora una pallida eco del mito minerario della Delibana, anche se pesantemente obliterata dal tema della matrigna e delle sorellastre, che richiama invece direttamente Cenerentola. Sembra che la nota favola della matrigna malvagia (non certo di origine ladina) sia stata applicata arbitrariamente ad una tradizione tenace ma ormai sbiadita, cui doveva essere del tutto estranea, allo scopo di ridarle una “logica” che non si riusciva più a raccapezzare. Purtroppo del mito originario non è rimasto quasi più nulla.

 

La moglie dell’arimanno (MP, p.67)
1. Un Arimanno comanda un drappello di contadini, ed i Trusani si accontentano di ammazzare lui solo.

La struttura militare qui descritta (un Arimanno al comando di molti contadini) contrasta con l’ipotesi che gli Arimanni fossero delle milizie al soldo dei Fassani, mentre si sposa molto bene con quella che gli Arimanni, gli unici uomini addestrati ed autorizzati a maneggiare delle vere armi, si fossero spartiti tra di loro la proprietà terriera; e dunque le truppe al seguito di questo Arimanno non fossero che i suoi servi della gleba, armati alla men peggio e nemmeno presi in considerazione dai nemici.

 

Il pastore del monte Cristallo (MP, p.85)
1. I Campi dei Beati: il pastore Bertoldo ricorda che, prima di nascere, tutte le “anime” abitavano i Campi dei Beati.

Ecco l’unica presentazione esistente in Wolff di una sorta di teoria metempsicotica localizzata nelle antiche Dolomiti, per quanto espressa in forma ancora rudimentale (si noti quanto poco i Campi dei Beati abbiano a che vedere col Paradiso cristiano!).

 

La salvaria (MP, p.91)
   

1. Il popolo della salvaria: una salvaria afferma che “sono stati i vostri antenati che ci hanno cacciate sui monti.”

 

Questa è in sintesi, con ogni verosimiglianza, la “vera” storia dei Silvani, in accordo con quanto affermato a commento de "I monti pallidi" qui sopra.
Cadina (MP, p.103)
   
1. La collana magica: viene consegnata a Cadina da “un nano del monte Latemar”.
Ritorna un “nano” del monte Latemar, in connessione ad oggetti “magici” di origine sotterranea (pietre preziose?). Ma la storia è certamente più tarda delle saghe dei Fanes.

2. L’incursione nella valle di san Pellegrino: i “Trusani” invadono la valle e vengono sanguinosamente sconfitti da una coalizione delle varie tribù che la abitavano.

Stavolta i “Trusani” attaccano dalla media val Cordevole, ma non sono gli Arimanni a contrastarli, bensì una coalizione nella quale non è difficile intravedere un’alleanza improvvisata di piccole tribù retiche dell’età del Ferro. I Trusani dovrebbero dunque essere qui i Romani. In effetti, pur se la leggenda afferma che i Fassani si garantirono una schiacciante vittoria, appare chiaro che i loro feriti caddero in mano al nemico, cosa che in genere capita ai vinti e non ai vincitori; il guerriero Verrenes, tornato anni più tardi dopo essere fuggito dalla prigionia, non può rimanere in paese ma deve darsi alla macchia (unendosi ai “Latrones”?); infine si afferma che Cadina, figlia di un capo tribù, viene chiesta in moglie da “un principe straniero”: ed anche questo lascia sospettare che l’occupazione romana fosse in realtà cominciata.

 

Le nozze di Merisana (MP, p.139)
1. Il rei de Raies: il “re dei raggi” è sovrano di un grande e splendido regno che si stendeva dietro l’Antelao.
Un regno puramente mitico, che però potrebbe essersi ispirato ai Cadubrenes, con la cui posizione geografica (“dietro l’Antelao”) potrebbe coincidere. Questo re appare in effetti ospite del re dei Lastoieres. Ancora una volta si ha la sovrapposizione tra figure puramente mitologiche e personaggi o tribù che potrebbero aver avuto un’esistenza reale. Il “re dei raggi” non può tuttavia essere altro che una ovvia personificazione del Sole, ed in Merisana possiamo facilmente leggere un “Meridiana”, attraverso un ladino “Merijana”. Siamo quindi in pieno mito solare, e c’è da chiedersi se la semplice favola qui narrata non sia che la punta dell’iceberg di un racconto mitologico molto più complesso. In ogni caso, è certo che il nome “Raies” attribuito da alcuni in Fassa al re dei Fanes (e ripreso da de Rossi) non è che un riporto spurio, un tentativo di identificare sotto il medesimo nome tutti i re, così come tutti i guerrieri tendono a chiamarsi Ey-de-Net, e tutti gli stregoni Spina-de-Mul.

2. I monti azzurri del paese dei Duranni: delimitano a sud il regno di Merisana.
A parte il riferimento geografico, utile per localizzare la "lontana Pregajanis", resta l’enigma del significato mitologico da attribuire a questo regno dell’ Eden delle Dolomiti meridionali.

3. Il velo del larice: la formazione che avvolge il larice a primavera viene assimilata ad un velo da sposa.

Ancora una volta, un mito che spiega un fenomeno naturale (anzi due: il “velo” ed il fatto che il larice, pur essendo una conifera, sia deciduo). Ora, da quando le spose portano il velo? Certamente già da tempi precristiani. Il significato simbolico del velo sembra essere in ogni modo associato ad uno stato di subordinazione della moglie rispetto al marito, dunque ad una società di tipo patriarcale, e questo induce a datare la seconda parte della leggenda ad un tempo distinto e posteriore rispetto alla prima, che deve essersi formata quando il regime sociale ovvio, “naturale”, era chiaramente il matriarcato. In base agli altri riscontri del ciclo dei Fanes, parrebbe che si possa parlare di età del Bronzo (o anteriore) per il mito di Merisana vero e proprio e di età del Ferro (o posteriore) per quello del larice. L’estensore di quest’ultimo deve aver semplicemente sfruttato la storia preesistente della “regina della natura” che “andava sposa” per inserirvi i dettagli che intendeva sviluppare ai suoi fini.

 

Albolina (MP, p.163)
   
1. I dominii del padre di Albolina: si estendono anche “sul paese dei Caiutes fino ad Agordo”.

Nuova precisazione geografica che aiuta a collocare i Duranni più a sud, ossia in val Belluna.
2. Le jarines: Albolina vede sorgere dall’acqua delle esili, benigne figure femminili vestite di bianco.
Potrebbe essere una rappresentazione non lontana dal vero di come venissero immaginati gli spiriti (femminili) oggetto dell’antico culto delle acque. Nella stessa leggenda, viene fatto riferimento agli “spiriti dei monti e delle acque”: ancora una volta, personificazione collettiva delle entità della natura.

3. Le Bregostene: donne pelose e dotate d’artigli al posto delle mani, tuttavia non malvagie, esperte di erbe.

Si noti la somiglianza morfologica con la Filadressa. Si tratta sempre di figure femminili, e già solo da questo fatto si dovrebbe evincere l’antichità del mito. Il demone che accompagna i morti negli inferi prenderà probabilmente spunto da immagini di questo tipo. Ma questo avverrà più tardi: per ora di un regno degli inferi non sembra esistere il concetto; nelle antiche leggende ladine i morti prendono forma semmai di uccelli o di fiori, forse in un rudimento di teoria metempsicotica che non giunse mai a svilupparsi compiutamente, o più semplicemente in un generale concetto della morte quale “riflusso nella natura”.

 

Elba (MP, p.183)
   
1. Il lago d’argento: l’acqua era di un colore chiaro e freddo, come d’argento liquefatto, tanto che si parlava di una massa d’argento sepolta nel fondo. Si vedevano nani nuotarvi od arrampicarsi sulle sue rive.

Vi è un’evidente connessione tra questo lago sacro (vedi il tesoro sepolto nel fondo, in conformità ai noti riti dell’età del Bronzo) ed il culto solare. Il lago è lo “specchio” del cielo? Elba, che vi naviga silenziosamente, è la “figlia del sole”. "Alba" o "Elba" è un termine pre-ladino significante "roccia", che permane tuttora in numerosi toponimi. Tuttavia in Ladino oggi "alba" significa proprio "alba", dal latino "alba" = "bianca". Elba dunque (accostarla alla "roccia" sarebbe privo di qualsiasi significato) è la personificazione dell’alba, la luce argentea che si diffonde silenziosamente sul lago del cielo, e svanisce quando nasce il sole: nella leggenda, dopo essere stata più o meno murata viva, Elba muore dando alla luce Soreghina. Tuttavia nella figura di Elba, che vive accanto alle acque del lago sacro, potrebbe scorgersi nello stesso tempo anche un riferimento ad un’anguana: e come l’altra anguana della Croda Rossa, che presumibilmente è la madre di Moltina, anche Elba ha (da un marito straniero) un figlio, Cian Bolpin, che viene allevato dagli animali totemici, il cane e la volpe. Non solo: la figlia primogenita, Soreghina, destinata a morire nell'oscurità, è detta "lujenta", luminosa, proprio come la sorella di Dolasilla!

 

Soreghina (MP, p.191)
   
1. La figlia del Sole: Soreghina, “filo di sole”, è la figlia di Elba.
Dietro a questa figura, che si rinvigorisce a mezzogiorno e muore quando rimane desta allo scoccare della mezzanotte, è evidente un mito solare, provvisto di simbolismi di cui non rimane purtroppo quasi più nulla. In affinità alla saga dei Fanes, la lujenta Soreghina deve scomparire nelle tenebre affinchè Cian Bolpin possa fondare la sua dinastia? E allora perché questo poi non accade? In effetti, il parallelismo tra la vicenda di Cian Bolpin e quella di Moltina (o di Romolo) si interrompe qui. La leggenda, come Wolff ce la racconta, prende a questo punto un tono ed un'ambientazione completamente diversi, tanto da far pensare che si sia ancora una volta in presenza di due racconti differenti, giustapposti sulla sola base del nome Cian Bolpin attribuito ai loro protagonisti. Se così è, il destino del Cian Bolpin originale ci resterà forse per sempre sconosciuto. U.Kindl sottolinea come la seconda parte della storia di Cian Bolpin segua il canovaccio della favola italiana di Leombruno. Si noti come anche questo nome sia costruito sulla base di un doppio animale (totemico?), ossia il leone e l'orso (bruno).

2. Soreghina trova Ey-de-Net ferito, lo nasconde, lo cura ed infine lo sposa.

In questa veste Ey-de-Net (un Ey-de-Net mitico, che non ha nulla a che vedere con l’eroe dell’epopea dei Fanes ed è quasi certamente molto più antico) è probabilmente da vedere come un simbolismo lunare (l’occhio della notte), in rapporto – non in antitesi – con quello solare di Soreghina. Quasi certamente questo non è nemmeno lo stesso Ey-de-Net che combattè con Spina-de-Mul, ed assistiamo ad una nuova commistione di due miti inizialmente distinti, che l’uso arbitrario del medesimo nome archetipico del guerriero mette in sovrapposizione.

La pittrice del monte Faloria (MP, p.219)
1. La donna-avvoltoio che ruba i bambini: la Filadressa per opera di magia si trasforma suo malgrado in un rapace che rapisce i bambini e li porta sulla montagna.

La leggenda, ambientata in quella conca di Cortina che probabilmente non ospitò villaggi stabili prima del medioevo, è tarda sia nella forma che nei contenuti. E’ plausibile che la figura della Filadressa, che anche in forma umana mantiene artigli d’avvoltoio, sia ispirata a quella delle Bregostene, ormai viste con aspetto di streghe malvagie, e si richiami dunque indirettamente ad un lontano culto dell’avvoltoio, visto come spazzino tanto dei corpi quanto delle anime.

 

Gli stregoni del bosco Delamis (MP, p.245)
1. L’itinerario: Da Zoldo, il protagonista attraversa il paese dei Peleghetes, poi il paese dei Duranni, infine arriva in pianura.

Passo, ai nostri scopi, interessante a titolo puramente geografico. La strada più ovvia, tenuto conto della difficile percorribilità della bassa valle del Maè, doveva essere attraverso il passo Duran, la bassa valle del Cordevole e la val Belluna. In base a questo passo, i Peleghetes avrebbero dunque potuto abitare la stessa conca di Zoldo e/o l’Agordino; i Duranni il medesimo Agordino e/o la val Belluna.

 

Donna Dindia (MP, p.283)
   
1. Le prime notizie sul gioiello affermano che la Raietta è nascosta da qualche parte sulla Gardenaccia.
Visto che la gemma sulla Gardenaccia non c’è più da un pezzo, né si lascia intuire un motivo ragionevole perché qualcuno possa avercela portata a fare un giro, a cosa si deve questo riferimento topografico? Questo è uno di quei particolari apparentemente irrazionali che lasciano sospettare l’esistenza di nozioni ormai del tutto perdute. Una possibilità (peraltro tutta da verificare) potrebbe essere che proprio su quell’altopiano carsico, un tempo coperto da altri terreni di cui resta ancora il singolare relitto geologico del Col di Sonea, si potessero trovare in passato delle “Raiette”, ossia cristalli di rocca di dimensioni sufficienti ad utilizzarli come punte di freccia.

2. Il mago: il gioiello è diventato proprietà di un mago, che lo offre alla dama che voleva conquistare, ma poi lo fa custodire da un drago.

L’assegnazione a questo mago del nome Spina-de-Mul (per quanto lo stesso Wolff se ne astenga) è stata compiuta da alcuni sulla base della presenza della Raietta, che compare associata ad uno stregone in entrambe le leggende. Ma tutte le gemme cospicue non possono che chiamarsi come il loro archetipo: mentre il comportamento del mago, le proprietà della gemma e tutto lo scenario della storia non hanno più niente a che vedere con l'epoca dei Fanes.

 

Le fondamenta incantate (AD, p.155)
1. La vergine sepolta viva: “Sotto il castello una vergine è murata, se nel castello un’altra vergine muore, tutto il castello dovrà precipitare”.

Una fosca storia nella quale, allo scopo di erigere un castello su una rupe “impossibile”, si ricorre alla magia nera sacrificando una vergine che viene murata viva sotto le fondamenta. Pieno Medioevo, dunque, come attestato da tutto lo svolgimento del racconto. Ma nelle modalità del sacrificio, officiato da una strega in cui non è difficile riconoscere lo stravolgimento della figura di un’anguana, riecheggia forse il ricordo di credenze antichissime legate ai miti della Lujanta e della Delibana (in effetti, per quanto la leggenda sia ambientata in val Gardena, essa venne raccolta da Wolff proprio nel Livinallongo).

 

L’Antelao e la Samblana (RB, p.17)
1. I “pagani”: una volta possedevano campi e capanne, ma poi sono stati scacciati e dimorarono nelle caverne e nei buchi, ed infine si estinsero.
Ancora un richiamo all’esistenza di un popolo di uomini selvatici: ma stavolta la storia è raccontata in età cristiana, i Silvani sono diventati i “pagani” ed ormai si sono estinti (anche se qualcuno crede che ancora oggi, nottetempo…)

2. I monti pallidi: a Serdes si diceva che le rocce fossero diventate bianche “per opera dei selvaggi”.

Riaffiora il mito dei “monti pallidi”, che probabilmente si riconduce direttamente a quello ben noto; ma stavolta l’opera viene attribuita non a degli immigrati di fresco, bensì più propriamente a quei “selvaggi” che sono stati scacciati nei boschi.

 

Bedoyela (RB, p.27)
   
1. L’ultimo Arimanno: è interessante notare che Loogut, “l’ultimo degli Arimanni”, è ancora pagano.

La cristianizzazione delle Dolomiti potè considerarsi completa attorno all’800. Dunque gli “Arimanni” medioevali dovrebbero collocarsi poco dopo tale data. Si osservi inoltre che “Loogut” non è affatto un nome ladino, e che il padre del medesimo è un proprietario terriero: tutti dati che si sposano bene con l’ipotesi che gli “Arimanni” non fossero una milizia mercenaria, ma la classe sociale dominante degli invasori longobardi. E’ vero che si afferma che Loogut “si arruola” tra gli Arimanni: ma potrebbe essere una banale deformazione posteriore legata al travisamento del concetto originario di Arimanno, oppure significare soltanto che l’uomo lascia il governo della sua fattoria per associarsi stabilmente alle bande armate.

 

L’ultima Delibana (RB, p.39)
   
1. Il sacrificio della Delibana: era costume che una vergine dovesse trascorrere (almeno) sette anni nella miniera del monte Pore per propiziare la fertilità della vena del minerale di ferro.
La presenza di questa tradizione nell’ambito dolomitico, apparentemente fino a tempi assai recenti, non dimostra positivamente nulla sul significato dello “scambio dei gemelli” con le marmotte presso i Fanes: evidenzia tuttavia, quanto meno, che la pratica di ingraziarsi le potenze del mondo sotterraneo con sacrifici del genere non fu affatto sconosciuta in questo angolo del mondo.

2. I nani del ferro: una volta erano i signori del paese, poi furono scacciati dagli uomini e costretti a ritirarsi nell’angolo più oscuro del bosco, anzi nell’interno della montagna.

Ancora una volta si riporta la storia della cacciata dei salvani, anche se questi sono proprio nani minatori a tutti gli effetti.
3. Le “luntjernine”: piccole lampade appese al soffitto della miniera, che rischiarano il cammino.

Un chiaro richiamo alle lucerne ad olio da minatore che già abbiamo visto comparire nel mito dell’Aurona.
4. Il rituale della Delibana era ricordato solo dalle donne: si afferma che gli uomini non ne sapevano nulla, ed anzi che in passato le donne avevano una lingua segreta, che gli uomini non potevano comprendere.
Un evidente accenno a regimi matriarcali, in cui le donne detenevano tanto la chiave della sfera del sacro quanto, forse di conseguenza, il potere civile. Interessante il parallelo col “gemellaggio con le marmotte” della regina dei Fanes, che diventa ancora più stretto se si ammette che anche in quel caso il rito avesse a che fare con la reclusione di una vergine nel sottosuolo. La “lingua segreta” potrebbe essere stata un gergo per iniziati costruito artificialmente, o forse piuttosto un antico linguaggio morto e dimenticato, che le donne si tramandavano soltanto a scopo rituale. L’accenno al matriarcato riporta l’origine del mito della Delibana almeno all’età del Bronzo, confermando così l’analoga datazione proposta per l’Aurona.
Il cavaliere dei colchici (RB, p.107)
   
1. Landrines e Bedoyeres: si afferma che i Bedoyeres abbiano conquistato il castello dei Landrines, e che poi siano stati sconfitti dai Fanes, i quali alla fine ne distruggono a loro volta il castello.
Appare abbastanza curioso questo tirare in ballo dei popoli, che abbiamo visto scomparire nella tarda età del Bronzo, nel contesto di una lunga e fosca storia di ambientazione nettamente medioevale. Siamo ancora una volta in presenza di una sovrapposizione di fatti successi in epoche diverse, i cui protagonisti omologhi vengono identificati nel nome e nelle azioni? Mi sembra difficile: nel medioevo non poteva esistere alcun popolo confondibile coi Fanes o coi Landrines. Sembra più ragionevole parlare semplicemente di una perdita del riferimento temporale, abbastanza comune nelle leggende medioevali, per cui passato prossimo e passato remoto, cronaca storia e mito, vengono mescolati in un unico calderone con la massima naturalezza.

2. Birkenleute: Wolff asserisce qui che il nome tedesco dei Bedoyeres deriverebbe in realtà non da Birken, betulle, ma da Spirken, termine antiquato per baranci (che egli peraltro definisce “alti pini neri”. Da queste piante prenderebbe il nome la Croda dei Baranci (in tedesco Birkenkofel), e dunque i Bedoyeres sarebbero vissuti in quella zona.

 

Vedi trattazione in >Appr. > Popoli.
Il fantasma del torrente Dopenyole (RB, p.209)

1. Il mugnaio fantasma: da vivo vendeva la farina ai selvaggi del Latemar, che in cambio gli davano l’oro puro estratto dalla montagna.

 

Un’ulteriore leggenda che insiste a collocare delle miniere sul monte Latemar, con annessi “selvaggi” che facevano i minatori.
La Silivena (RB, p.259)
   
1. Le tradizioni dell’Alpago: una volta si chiamava Silivena ed aveva un forte legame con la città di Oderzo (si afferma addirittura che le fosse appartenuta). Si dice che la sua regina Bongaya, inabissatasi col suo esercito a seguito di una battaglia perduta, riapparirà dal lago di Santa Croce nel corso di un nuovo terremoto.
La Silivena era abitata dai Paghinis della regina Bongaya, che però vennero sconfitti dai Laponis. Chi tra questi era in relazione con l’antico centro paleoveneto che diventerà poi la romana Opitergium? Wolff non ce lo dice, e forse non era chiaro neppure ai suoi informatori. Potremmo vedere più facilmente i Paleoveneti nei “Laponis” (nome sulla cui etimologia non riesco a fare supposizioni), supponendo che i “Paghinis” fossero la popolazione originaria, retta a matriarcato e forse dedita a culti ctonii (si noti l’associazione con caverne e terremoti) che essi sconfissero. Si osservi come il nome “Paghinis” richiami da vicino “pagani”, dal latino pagus, villaggio, nome che un tempo non indicava in sé una religione, bensì uno stile di vita rurale.

 

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