La
saga dei Fanes - approfondimenti
I popoli delle Dolomiti
La
saga dei Fanes cita diversi popoli abitanti le Dolomiti. Naturalmente
non è facile farli uscire dal mito, assegnando loro una
collocazione geografica e storica, come se possedessimo delle
"prove" della loro effettiva esistenza. Qui sotto riordino
quello che la leggenda dice effettivamente di loro.
Due
popoli compaiono già nel "mito
delle origini:
I
Landrines: molto sapienti,
amanti del bel canto, sanno costruire magici strumenti a fiato
d’argento, le “tìmpenes”.
Abitano in val Popena, dal lago di Landro alle terre attorno alle
Tre Cime. Dal loro castello si vedeva tutta la Croda
Rossa. La parola "landro" (dal latino antrum
= caverna), presente col medesimo significato specifico tanto
in ladino quanto in friulano, lascerebbe arguire che i Landrines,
per quanto sapienti (in confronto ai Fanes!), fossero trogloditi.
Si può presumere che lo stesso “castello reale”
non fosse in realtà che un antro facilmente difendibile
e ben fortificato. Le terre di questo popolo appaiono forse in
parte ubicate in valle , ma per lo più sono situate sugli
altopiani, come quelle dei Fanes. Sembra si tratti di una società
matriarcale, visto che un “re” non compare mai. Si
osservi inoltre che la sposa del principe, che proviene da fuori,
viene accettata solo dopo molte difficoltà, non si integra
affatto ed alla fine è costretta ad andarsene. .
A proposito delle "tìmpenes",
si noti la sinonimia, che troveremo più volte nella leggenda:
“magico” = “d’argento” = di metallo,
e nel caso di una tromba antica il metallo non può essere
che il bronzo. I Landrines sapevano fondere il bronzo essi stessi,
o si giovavano di fonditori girovaghi, o semplicemente si erano
procurati le “tìmpenes”
scambiandole con altri prodotti?
I Bedoyeres: abitano più a nord e la loro
regina è “la più possente ed orgogliosa signora
di tutte le Alpi”. Dovrebbero dunque aver abitato la Pusteria;
almeno dall’Eneolitico fino a tutto il Bronzo e poi nell'età
del Ferro, in questa valle risiedeva una ricca comunità
con diversi villaggi, di cui ci sono rimasti numerosi reperti.
La leggenda ce li rappresenta evidentemente come una società
organizzata in regime matriarcale. “Bedoia”
in ladino significa “betulla”, pertanto i Bedoyeres
sarebbero la “gente
delle betulle”. E’
possibile che in antico la Pusteria fosse principalmente coperta
di betulle, anziché di conifere come oggi? Non si si può
certo escluderlo.
Wolff
(nelle sue osservazioni accluse alla leggenda "Il
cavaliere dei Colchici") propone invece che i
Bedoyeres avessero abitato la zona della Croda dei Baranci
(in tedesco Birkenkofel), ipotizzando che i Ladini
abbiano mutuato il nome del popolo in epoca tarda, traducendolo
dal tedesco Birke, betulla. Questa però
non sarebbe altro che una mutazione lessicale spuria da
un precedente Spirke (che egli afferma essere
un antiquato termine tedesco denotante i baranci) . Se
tutto ciò fosse vero, la ristrettezza e povertà
del territorio dei Bedoyeres escluderebbe peraltro che
si potesse trattare di un popolo particolarmente numeroso
e potente. Tuttavia, sia sul piano della terminologia
botanica sia su quello delle priorità linguistiche,
le cose non stanno proprio così. In effetti, il
termine tedesco più comune per “barancio”,
dal ladino barantl, sostantivo di antica origine
retica, in italiano più correttamente pino
mugo, è Latsche (anche Legföhre).
Tuttavia il termine Spirke non è per nulla
antiquato, ma tuttora ben in uso in Austria e Germania:
però per indicare una pianta di aspetto diverso
dal Latsche. Secondo il Fenaroli (Flora delle
Alpi, 1998), il pino mugo si presenta sotto due varietà
tipiche ben differenziate, che tuttavia è difficile
interpretare come sottospecie chiaramente distinte, in
quanto esistono tutte le possibili forme e combinazioni
intermedie. Sta di fatto che tanto nelle Alpi occidentali
come nei Pirenei, Giura, Foresta Nera ecc. prevale la
varietà eretta detta Pinus montana o
Pinus uncinata, albero a singolo fusto, dalla corteccia
scura, alto fino a 25 m (= Spirke); mentre nelle
Alpi orientali e nei Carpazi prevale la varietà
prostrata della medesima specie vegetale, a fusto multiplo,
detta Pinus mughus (= Latsche). Ciò
detto, e premesso che la zona della val di Landro e monti
circostanti è stata abitata da genti di ceppo retico,
precursori dei Ladini, ben prima dell’arrivo dei
popoli tedescofoni, si può dunque concludere che
nella parlata ladina la varietà eretta, del tutto
eccezionale nelle Dolomiti, sia stata associata nel nome
di barantl al conspecifico barancio propriamente
detto, sulla base delle profonde somiglianze botaniche.
Quindi la montagna, sulle cui pendici crescevano questi
barantl fuori dell’ordinario, ha preso
in ladino il nome di Croda dei Baranci; mentre i Tedeschi,
che già conoscevano bene entrambe le varietà
e riservavano il termine Latsche solo a quella
prostrata, quando giunsero nella zona assegnarono alla
montagna la denominazione più precisa ed appropriata
nella loro lingua: dunque, Spirkenkofel. Il termine
Spirke deve poi essere caduto localmente in obsolescenza
ed essere stato sostituito nella toponomastica tedesca
dall’assonante Birke. Difficile dire se
in questo equivoco possa o no aver giocato un ruolo il
ricordo di un popolo leggendario, noto ai Ladini come
Bedoyeres (e che quindi non aveva nulla a che vedere né
coi baranci né con la Croda omonima), popolo il
cui nome i tedeschi già traducevano - correttamente
- come Birkenleute. Ritengo pertanto che si tratti
soltanto di una coincidenza toponomastica casuale, da
mettere in relazione con un tardo qui pro quo
tutto tedesco, mentre l’originale ladino associa
molto chiaramente i Bedoyeres alle betulle, e niente affatto
ai baranci, e la Croda ai baranci, e niente affatto alle
betulle.
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Varietà
prostrata (barancio, Latsche, Pinus
mughus) |
Varietà
eretta (Pino montano, Spirke, Pinus
uncinata) |
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Nella
saga dei Fanes vera e propria:
Dei
Bedojeres non si parla più. Dopo la storia di Moltina,
databile a diversi secoli prima, sono completamente scomparsi
dalla scena. Non è inverosimile ritenere che siano stati
spazzati via dalle invasioni, in conformità a quanto ci
dicono i ritrovamenti archeologici. E’ probabile tuttavia
che gli insediamenti nella fertile Pusteria siano stati ricostruiti
più volte, e che la valle abbia cominciato ad essere ricolonizzata
ad opera degli stessi Reti anche piuttosto presto; non è
quindi affatto escluso che i Fanes l’abbiano “visitata”,
ma certamente quello che fu il popolo della “più
possente ed orgogliosa regina delle Alpi” non merita più
nemmeno un accenno di sfuggita.
I Landrines si guadagnano invece una citazione: la leggenda afferma
che vengono sconfitti due volte. E’ possibile che siano
parzialmente sfuggiti alla sorte dei Bedojeres defilandosi sui
loro altopiani, ma anche in questo caso non devono più
essere che l’ombra del popolo di un tempo. E’ peraltro
evidente che i Fanes non sentono alcun vincolo di parentela nei
loro confronti. Secondo Wolff,
i Landrines non partecipano alla coalizione contro i Fanes, mentre
Morlang invece
li aggiunge all’elenco. Il suo potrebbe essere un buttar
nel calderone tutto quello che c’è a disposizione;
ma anche se così non fosse, il loro ruolo rimane inessenziale.
Va osservato che nella leggenda (certamente medioevale) del “Cavaliere
dei colchici“ si afferma che i Bedoyeres sconfissero
i Landrines, ed i Fanes distrussero i Bedoyeres. Si tratta di
nozioni assai distorte, se non completamente inventate. Tutt’al
più, anche volendo concedere il dubbio che si rifacciano
ad un nocciolo tradizionale genuino, si potrebbe ammettere che
i Landrines siano stati sconfitti da gente che veniva dalla Pusteria,
mentre i Fanes potrebbero essersi limitati a distruggere qualche
villaggio che cominciava a ricostituirsi in Pusteria fra un’invasione
e l’altra.
Osserviamo
ancora che né in Fassa, né in Gardena, né
in Badia, né nella conca di Ampezzo si cita la presenza
di popoli in grado di dare dei fastidi: tutt’al più
qualche silvano.
La situazione delle quattro vallate appare tuttavia un po’
diversa.
L’ampezzano sembra non essere stato abitato
stabilmente prima dell’alto medioevo: quindi non stupisce
che sia semideserto alla fine del Bronzo.
La val Badia fu popolata da insediamenti fissi
nel Bronzo medio e recente, che però attorno al 1300 A.C.
furono certamente distrutti; e quindi anche questo conto torna.
La val Gardena – che stranamente non viene
mai citata da alcun passo nell’intero ciclo di leggende
– fu invece sede nel Bronzo di importanti luoghi di culto,
che lasciano supporre anche la presenza di insediamenti; ed il
culto proseguì anche nell’età del Ferro. I
villaggi furono distrutti anch’essi verso la fine del Bronzo
recente, nonostante la valle risulti meno esposta alle invasioni,
e vennero ricostruiti solo più tardi? Non erano tali da
suscitare l’attenzione dei Fanes? Per qualche ragione, forse
religiosa, o forse perché li temevano, i Fanes li rispettarono?
O avevano stipulato un accordo? O i Gardenesi si godettero la
loro parte di scorrerie, e non vengono citati solo per puro caso?
Non sono in grado di azzardare alcuna risposta.
Ancora più delicato è il caso della val
di Fassa. Essa ospitò certamente degli abitati
nell’età del Bronzo, e più tardi anche in
quella del Ferro, anche se i reperti non sembrano così
numerosi come quelli della val Gardena. La sua posizione è
poi tale da rendere molto improbabile che sia stata messa a ferro
e fuoco dalle prime invasioni retiche. Pure, la troviamo spopolata.
Vi è l’eccezione dei “nani (=Silvani)
del monte Latemar”, che troveremo più oltre, forse
localizzabili al confine tra Fiemme e Fassa, capaci di attività
metallurgiche di una certa rilevanza anche qualitativa. Apparentemente,
questi non erano stati distrutti. E allora? L’alta valle
dell’Avisio fu gradualmente abbandonata per qualche altro
motivo? I Silvani si stavano
lentamente estinguendo da soli (a seguito di epidemie, o per ragioni
diverse)? Sono altre domande senza risposta.
Discutiamo
ora invece dei popoli che formeranno la coalizione anti-Fanes.
I primi, ed i più importanti, sono i Caiutes.
Sono descritti come gli arcinemici dei Fanes, il nerbo della coalizione
che alla fine li distruggerà (anche se vedremo che forse
le cose stanno un po’ diversamente). Si afferma che muovano
contro i Fanes "dal monte Migogn": questo fa parte del
loro territorio, ma la sua estensione è troppo limitata
per farne la sede esclusiva di un popolo “potente”
(a parte che Ey-de-Net lo percorre per giorni in lungo e in largo
senza incontrarvi anima viva). I Cajutes abitano evidentemente
l’alta valle del Cordevole (altrove si afferma che abitano
“a sud della Marmolada”; in “Albolina”
si afferma che il loro paese si stendeva “fino ad Agordo”).
Vi sono poi i Lastoieres,
probabilmente quelli più esposti e più tartassati
dai Fanes: il loro nome richiama troppo da vicino i Lastoi di
Formin per localizzarli lontano da questi. Oggi in effetti i Lastoi
sono una pietraia così desertica da far sembrare le alpi
di Fanes il giardino dell'Eden; un tempo forse non era così,
oppure i Lastoieres abitavano semplicemente nei pressi, magari
sul pianoro del Mondeval.
I Cadubrenes sono gli
unici il cui nome ancora ai nostri giorni sia bene o male applicabile
ad un territorio definito: si può quindi concludere ragionevolmente
che abitassero il Cadore. "Cadubrenes" è
un adattamento di Catubriges, che è una parola
celtica. E' possibile, tuttavia, che il popolo qui indicato con
questo nome occupasse in realtà il Cadore prima dell'invasione
celtica (dalle Alpi, non attraverso la pianura padana; V-IV secolo
A.C.?).
I Peleghetes, secondo
quanto affermato nella leggenda “Gli
stregoni del bosco Delamis”, dovrebbero aver popolato
o la val di Zoldo oppure l’Agordino; ma altrove (cfr. sopra)
si afferma che Agordo faceva parte del territorio dei Caiutes.
Sembra peraltro che “Peles” o “Peleghes”
(da "Pale"?) fosse un antico nome ladino del
Pelmo (Palmieri): col che la loro
residenza si localizza decisamente nello Zoldano, forse ancora
una volta in una zona d’altopiano.
I Duranni, rinomati guerrieri,
risiedono nella “lontana Pregajanis”; il loro nome
è conservato in alcuni toponimi sparsi su una vasta area
del bellunese (passo Duran, monte Duranno...).
Sempre secondo “Gli
stregoni del bosco Delamis”, essi abitano fra i Peleghetes
e la pianura. Spina-de-Mul si procura il loro aiuto, prima di
quello dei Peleghetes, che visita sulla strada del ritorno; quindi
dovrebbero sì trovarsi più lontano di questi ultimi,
ma non troppo più lontano. Nelle “nozze
di Merisana” si afferma che il (mitico) regno di quest’ultima,
un’ondina della val
Costeana (conca di Cortina) si stendeva “dal monte Cristallo
fino alle montagne azzurre dei Duranni”. Posto che il Cristallo
si trova a nord di Cortina, le “montagne azzurre”
devono trovarsi a sud, e questo esclude che il colore possa aver
a che fare col ghiaccio. Si tratta quindi di montagne viste in
una brumosa lontananza, e gli ultimi monti visibili verso sud
sono quelli che coronano da settentrione la val Belluna (a poco
più di una trentina di chilometri da Cortina in linea d’aria):
più in là, c’è quasi subito la pianura.
Vi è infine un fuggevole accenno
al fatto che alla battaglia della Furcia
dai Fers partecipano persino truppe mandate “dalla Sillivena
e dalla lontana Splanedis”.
Wolff stesso (nelle
spigolature in coda ai “Rododendri bianchi delle Dolomiti”
) si preoccupa di riferirci cosa sia la Sillivena: è l’Alpago,
dove la memoria di questo nome ai suoi tempi era ancora viva,
assieme a quella di una stretta relazione con l’antichissima
città veneta di Oderzo.
Ed a questo punto diventa improvvisamente chiaro anche cosa sia
la misteriosa “lontana Splanedis” citata accanto alla
Sillivena: la “splanedis” (con iniziale minuscola)
è semplicemente la “spianata”, ossia la pianura,
la pianura veneta che si stende, apparentemente sconfinata, ai
piedi delle ultime colline. Del resto, anche se l'ho scoperto
tardi, lo stesso Wolff lo aveva
affermato nella prefazione all'8^ edizione
delle Dolomitensagen.
Ecco che anche il quadro disordinato di tutte le popolazioni finora
citate assume d’un tratto contorni e colori ben definiti.
Siamo in presenza di un gruppo di popoli che possiede un “sentimento
di unitarietà”, se non un senso dello Stato, rudimentale
quanto si vuole, ma sufficiente a mandare truppe fin dalla pianura
in aiuto di un lontano avamposto di montagna minacciato dal nemico:
in questo luogo ed in quest’epoca, non può trattarsi
che dei Paleoveneti. Dalle
loro sedi residenziali nella pianura (splanedis), essi
hanno conquistato (o colonizzato, o confederato) l’Alpago
(Sillivena) e la val Belluna, che a questo punto non può
che coincidere con la “lontana Pregajanis”: più
lontana dalle terre dei Fanes dello Zoldano e dell’Agordino,
ma più vicina della Sillivena, coronata dalle ultime montagne
visibili verso sud, ampia abbastanza da nutrire un popolo potente,
e sede di numerosi antichi ed importanti insediamenti paleoveneti.
Di qui, probabilmente alla ricerca di giacimenti minerari, i colonizzatori
hanno risalito le valli, inglobando nella loro sfera d’influenza
i popoli che già vi risiedevano: nella valle del Piave
i Cadubrenes; nel bacino del Cordevole Caiutes e Lastoieres; ed
in quello del Maè i Peleghetes.
C’è da dire che sull’origine dei Paleoveneti,
analogamente a quella degli Etruschi, non vi è una totale
unanimità di vedute tra gli studiosi. Mentre infatti le
fonti classiche li definiscono un popolo dell’Asia minore,
che combattè a fianco dei troiani e si disperse dopo la
sconfitta, approdando infine sulle sponde settentrionali dell’Adriatico
(ed in effetti la lingua ed alcuni tratti culturali li distinguono
dalle popolazioni preesistenti), i ritrovamenti archeologici non
manifestano una sostanziale discontinuità di reperti in
coincidenza col loro arrivo.
E’ quindi probabile che solo un gruppo relativamente piccolo
di coloni sia effettivamente giunto nel Veneto, via mare, forse
in più ondate successive a partire dalla fine dell’
XI secolo A.C., e che la loro espansione sia stata relativamente
pacifica ed abbia assunto più i connotati di una crescente
influenza politica e culturale che quelli di una sopraffazione
violenta.
Per questa ragione possiamo aspettarci che le tribù che
si riuniscono nella coalizione anti-Fanes siano prevalentemente
composte da individui dello stesso ceppo etnico cui appartenevano
gli stessi Fanes, per quanto ormai culturalmente e politicamente
siano ben inserite nell’orbita paleoveneta e, forse, siano
almeno in parte controllate da un ceto aristocratico di quella
medesima estrazione etnica.
Delle caratteristiche culturali dei popoli della coalizione, la
leggenda ci dice molto poco. Possiamo presumere che la società
sia organizzata in modo patriarcale, anche perché la leggenda
parla sempre e solo di re, e mai di regine. Sembra trattarsi di
popoli “di valle” e non di altopiano, come del resto
c’è da attendersi: quindi presumibilmente essi praticano
estesamente l’allevamento e l’agricoltura. Conoscono
certamente bene l’arte della metallurgia: è probabile
che dall’Oriente abbiano portato anche le prime conoscenze
della lavorazione del ferro, che tra non molto conoscerà
una diffusione esplosiva (è quasi certo che i Caiutes,
e forse non solo essi, abbiano dato impulso alle attività
estrattive nel loro territorio). Sul piano religioso essi accettano
i culti preesistenti, che dall’età del Bronzo si
perpetueranno sostanzialmente indisturbati in quella del ferro:
culto delle acque, forse legato anche all’adorazione del
Sole, roghi votivi; è tuttavia ovvio che anche in questo
campo essi introducano dei concetti nuovi, probabilmente una personificazione
delle divinità (Reitia,
la trina Trumusjatis,…)
che in precedenza sembrano essere state intese soltanto come “spiriti
della natura”.
Fa parzialmente eccezione a questo quadro il popolo dei Lastoieres,
come detto probabilmente una tribù d’altopiano e
quindi culturalmente più affine degli altri ai Fanes, anche
se ormai a tutti gli effetti gravitante nell’orbita politica
dei Paleoveneti (e certo le razzie dei Fanes contribuiscono a
rinsaldare questo legame). |