Mappa del sito

 

LA PREFAZIONE DI K.F.WOLFF ALL'OTTAVA EDIZIONE DELLE SUE "DOLOMITENSAGEN"


Con questa nuova prefazione, Wolff presenta un quadro sintetico dei suoi intendimenti e delle sue difficoltà nello scrivere le “Dolomitensagen” e risponde in parte ai suoi critici. Egli dichiara apertamente che, già alla fine dell’800, gran parte delle leggende più antiche erano quasi completamente scomparse. Con gran fatica era riuscito a raccoglierne alcuni frammenti, da cui “intuì”, - almeno in parte in base alle sue personali concezioni - quali dovessero essere state la trama originale e lo svolgimento della leggenda. Egli ammette candidamente di non essersi comportato da ricercatore etnologico professionista, per lo più perché, almeno nei suoi primi anni di lavoro, non aveva idea di cosa questo volesse dire. Ad ogni modo, egli si giustifica affermando che, se non ci avesse posto mano subito, l’intero patrimonio sarebbe stato perduto per sempre.

 

 

PREFAZIONE ALL’OTTAVA EDIZIONE


(con integrazioni)

 

Noi, diventati estranei al nostro stesso passato, possiamo
solo cercare goffamente di riannodare il nuovo col vecchio
.”

(Jakob Grimm nel “Giornale di antichità
tedesche
” di M.Haupt, 1841, vol.1, p.575
)


“La conoscenza degli antichi popoli nelle valli dell’Isarco e della Rienza è scomparsa”. Così lamentava nella sua autobiografia Karl Wohlgemut, un collezionista di dati etnologici. Questo è massimamente vero per le leggende, le favole e le tradizioni; nelle nostre terre, tuttavia, è reso ancor più pesante dal fatto che alcune persone se ne vergognano e pertanto negano risolutamente tutto ciò che ancora saprebbero. Questo è altrettanto evidente per i tedeschi come per i ladini. Prima di accostarmi maggiormente alla questione, devo fornire al lettore che non conosca la zona alcuni dati sul popolo dei Ladini. La zona delle Dolomiti (da Bolzano a Belluno e da Brunico alla val Sugana) è abitata nell’ovest e nel nord da tedeschi, nel sud e sudovest soprattutto da italiani, ma nelle sue parti più interne dai Ladini. Essi sono i discendenti (in modo ancora molto controverso dal punto di vista sia linguistico, sia dell’etnologia storica) degli antichi Reti. Questi Ladini, fin dal tempo dei romani, ma soprattutto nei secoli successivi sotto l’influsso della Chiesa, hanno accettato il latino modificando le loro precedenti parlate. Questo non è avvenuto solo nelle valli dolomitiche, ma in quasi tutte le Alpi orientali, in quanto la comunità parlante la stessa lingua, di cui i Ladini costituiscono gli ultimi resti, deve (in base alle ultime ricerche) essere stata dominante dall’Appennino al Danubio e dal piano del Gottardo fino all’Istria. Con l’avanzata dei popoli tedeschi da nord e della lingua italiana da sud l’area linguistica ladina si frammentò dividendosi in tre sottogruppi: uno nei Grigioni, uno nelle Dolomiti ed uno in Friuli. Questo “reto-romancio” domina ancor oggi, nonostante tutte le contrazioni e le lacerazioni, dall’interno della Svizzera fino all’Adriatico, ed è una particolare lingua neolatina. Essa si colloca più vicina al francese ed allo spagnolo che non all’italiano, poiché essa conserva la finale in –s, che è assente nell’italiano. La lingua ladina, o reto-romancia, comprende oltre 70 dialetti, di cui una dozzina appartengono al ladino dolomitico, per quanto la popolazione dei ladini dolomitici conti soltanto circa 22.000 persone. Diversi indizi dimostrano che un tempo in tutta la zona reto-romancia sussistevano animate interrelazioni e scambi intellettuali. In ogni caso la poesia delle leggende e delle fiabe dei ladini dolomitici si occupa anche di concetti che giacciono al di fuori della loro patria ristretta; così essa conosce le vette ghiacciate della catena alpina principale; ma conosce anche la pianura veneta (Splanèdis)*) e la “grande acqua del margine” (àyva Limidona), ossia il mare. Più in là, conosce le città di Aquileia (Algleya) e Venezia (Anyezhia), come pure uno dei grandi laghi dell’Alta Italia (Layadüra). Si noti esplicitamente che strettissime corrispondenze paesaggistiche ed etnologiche legano le Dolomiti con le Alpi Carniche; tuttavia queste ultime costituiscono per l’intero Friuli ed il suo popolo il vero e proprio cuore della regione, una fontana della giovinezza da cui le peculiarità friulane zampillano sempre rinnovate.
Una scrittura ladina standardizzata e universalmente riconosciuta non esiste ancora. Nel lavoro che segue occorre osservare che “zh” si pronuncia “j” alla francese e “sh” si pronuncia “sch” alla tedesca [in italiano, come “sc” di “scena”, N.d.T.]. Il Ladino “v” corrisponde al tedesco “w” [ossia a “v” italiana, N.d.T.]. Tutti i rimanenti fonemi usati dal ladino si devono leggere come in tedesco. “Gh” suona un po’ diverso da “g”, cosa tuttavia che passa del tutto inosservata ad un lettore tedesco; la “h” rimane muta. (Chi volesse informarsi più da vicino sul reto-romancio può utilizzare le seguenti opere: P.J.Andeer: “Grammatica elementare reto-romancia”, Füssli, Zurigo; Theodor Gartner, 1883: “Grammatica reto-romancia”, Henninger, Heilbronn; Theodor Gartner, 1910: “Manuale di lingua e letteratura reto-romancia”, Halle; quest’ultima è specialmente raccomandabile. Una visione d’assieme si trova sullo “Schlern” 1955, p.240 sgg.)
Una volta, nella vita pubblica dei Ladini dolomitici giocavano un ruolo importante i teatri all’aperto, in cui nei giorni di sole invernali si davano rappresentazioni di parecchie ore. Si scopava via la neve, si stendevano al suolo delle assi e gli spettatori stavano in piedi, in modo da avere il sole alle spalle. Gli attori recitavano alla piena luce del sole. Durante gli intervalli (ma non durante lo spettacolo) si mangiava qualcosa in piedi. Le scene particolarmente commoventi dovevano essere ripetute più volte. Col tramonto del sole (kan soredl va florì, ossia “quando il sole fiorisce”) ci si affrettava verso casa e solo allora si faceva cucina. L’arte scenica comprendeva anche e soprattutto la recitazione di canzoni ed il racconto. Questi venivano declamati nei filò. Che i racconti presentati siano stati brevi, come trasparrebbe dai frammenti che oggi ne rimangono, è un concetto completamente sbagliato. In una sera di filò per lo più si presentava un solo racconto, e questo durava pressappoco un paio d’ore. C’era poi chi sovrintendeva alla rappresentazione, provvedendo abilmente a suddividere i racconti ed a rinviarne la continuazione alla serata successiva. In Alpago, una zona circondata dai monti sul margine sudorientale delle Dolomiti, viveva ancora sul finir del secolo un vecchio che soleva far durare i suoi racconti da filò per un’intera settimana. Ancora nel 1932, quando mi trattenni in Alpago per l’ultima volta, la gente parlava con ammirazione di questo cantastorie, ma nessuno riusciva ad emularlo. Tra i tirolesi tedeschi questo tipo di cantastorie veniva definito “a feiner Prechter” [“un fine dicitore”]. Secondo Karl Staudacher (“Schlern”, 1933 p.320) in Pusteria questa espressione è ricordata ancora oggi; essa si rifà al cimbrico “prechten” = parlare. A Louc, nel Vallese, una vecchia sapeva cantare a memoria una “cantique” di 114 strofe di otto versi)**) .
I teatri popolari sono scomparsi da tempo ed anche l’arte del racconto è decaduta. Tuttavia la cosa peggiore è costituita da certa informazione, o meglio disinformazione, che alla gente fa apparire indegne e risibili tutte le tradizioni del passato e l’intero complesso culturale del tempo antico. Così un ampezzano non voleva assolutamente ammettere che lì un tempo si raccontasse delle anguane (le fate delle acque); messo alle strette, osservò finalmente con una beffarda alzata di spalle che si trattava di una vecchia, sciocca superstizione. Un altro ampezzano, con cui discussi di questo, fece un cenno di comprensione e disse: “i no vò pi savè pi de nuya de sta roba vetjes” (non vogliono più saper nulla di questa roba vecchia). Una vecchia, che in gioventù come “britera” (malgara) aveva udito ancora raccontare molte leggende, con tutta la sua buona volontà non potè darmi che informazioni molto lacunose ed infine osservò: “l’era ‘n vetjo, kel savea kontà duta sta robes, me l’è tanto ke l’è morto” (c’era un vecchio che sapeva raccontare tutte queste cose, ma è tanto tempo che è morto).
Che per l’enrosadira nelle Dolomiti esistessero antiche denominazioni indigene, lo sanno ancora oggi molte persone, ma non riescono più a ricordarsele. “I te an dut desmintjà” (hanno dimenticato tutto), scrive il ricercatore friulano di leggende Malattia della Vallata. Sul grande ciclo leggendario del “Regno dei Fanes” due donne della val Badia, che per il resto erano ben informate, seppero dirmi solo quanto segue: “La ite te Fanis éle tsakan de gran veres anter ki de Fanis e i Lumbertsh” (lì in Fanes ci fu una grande guerra tra la gente di Fanes ed i Longobardi) [qui Wolff equivoca: i “Lumbertsh” per i Ladini non sono solo i Longobardi, ma (spregiativamente) gli “italiani” in generale, n.d.t.]. Sulla sacra fiamma che l’aquila preserva sul Sasso Cavallo, si espressero in questo modo: “Sul Sass del la Kruzh valyade odòi na gran flama, ke zho ìa e kà e à l korù brum e kötjen” (sul Sass de la Crusc si vede talvolta una grande fiamma che va qua e là ed è di colore rosso e blu). Avevano sentito il nome di Dolasilla e pensavano fosse stata una principessa di quei Fanes. Sapevano qualcosa anche di una lega dei Fanes con le marmotte. Infine, avevano sentito il nome “Ödl-de-Nöt” e pensavano che indicasse qualcosa di spettrale. Una terza donna della stessa valle notava “da nos kuntai tröp dla Dolasilla” (da noi si raccontavano molte cose su Dolasilla) e soggiungeva “Dolasilla aré la fia dla rezhina de’Fanes” (Dolasilla era la figlia della regina dei Fanes), questo lo aveva già sentito da bambina. Una vecchia gardenese, che aveva lavorato molto negli alpeggi, pretese peraltro di non saperne nulla. Quando da parte mia cominciai a raccontarle di questo e di quello, ella disse: “Tel storyes éy audì dai tshentsh” (di queste storie ne ho sentite a centinaia). Sul regno dei Fanes osservò: “De la mont de Fanes éy audì tropes storyes da temèy dai vedli da tzakan, ma n’è méy kerdù dut – i m’è desmintjà” (sulle alpi di Fanes a suo tempo ha sentito dai vecchi molte storie sinistre, ma non ci ho mai creduto, ed ora me ne sono dimenticata°) .
All’inizio del 19° secolo Julius Fröbel compì un viaggio di studio nel Vallese e ci scrisse sopra un libro. Vi descrisse come la gente, alla sua domanda se non conoscessero delle vecchie canzoni, avesse risposto che tali canzoni esistevano ancora, ma non contenevano altro che sciocchezze (“des folies”) e le cantavano solo i vecchi ubriaconi. Con fatica, disse Fröbel, era riuscito a farsi raccontare prima un passo di una di queste canzoni, e infine l’intera ballata°°) . La canzone è molto bella nella forma e nel contenuto. Purtroppo possiamo dedurne che un mucchio di antiche meravigliose tradizioni popolari devono essere andate perdute per l’incomprensione e la presunzione della cultura.
Ludwig Steub riferisce nel suo “Tre estati in Tirolo” (Monaco 1846, p.219 sg.) che le domande sulle leggende popolari vengono talvolta considerate un insulto. Siccome un forestiero aveva pubblicato alcune leggende della Ötztal, i più vecchi della valle si recarono al tribunale distrettuale per citarne in giudizio l’estensore, in quanto si era fatto beffe della loro patria con delle vecchie fiabe la cui interpretazione si era persa già da molto tempo. Il tribunale spiegò loro tuttavia che non si era trattato affatto di una mancanza di rispetto, al che uno di questi valligiani della Ötztal prese la penna per lamentarsi sul “Tiroler Boten” che lo scrittore straniero aveva rappresentato gli abitanti della valle “come se fossero usciti dai boschi l’altro ieri e fossero tuttora ottenebrati dalle più profonde superstizioni”. Dovette tuttavia concedere che le favole di cui si parlava venivano ancora raccontate nei filò nelle lunghe sere d’inverno.
I massi coppellati, i toponimi e le leggende delle alte valli del Vallese, trattati da Reber verso la fine del 19° secolo nella letteratura svizzera, verso il 1936 erano conosciuti ai locali solo come dei relitti dell’immaginazione, rivelando esplicitamente quanto le tradizioni fossero decadute. (Vedi la relazione annuale n.28 della Società Svizzera di Preistoria, 1936 p.93 sgg.).
Il già citato desiderio di negare ogni cosa assume talvolta delle forme incredibilmente decise. Nel 1932 la più vecchia donna del Livinallongo non voleva ammettere che una volta sul monte Pore ci fosse stata una miniera, e quando le accennai a numerose leggende che ricordano quella miniera (p.es. la storia dei “Fiori del ferro”), spiegò queste presunte leggende come delle invenzioni ridicole, e dieci altre persone le diedero ragione. Sarei stato propenso a crederle se non avessi avuto con me le annotazioni che avevo registrato 24 anni prima. A quel tempo un pastore di Andràz non solo mi raccontò la leggenda dei “fiori del ferro” ed altre storie di miniera, ma mi mostrò anche il sentiero lungo il versante della montagna da cui il ferro veniva portato a valle, e chiamò questo sentiero “Tryol de la vana”.
Quando avevo otto o nove anni, un vecchio bracciante del Primiero mi raccontò che lì nel 1809 si erano verificate delle aspre lotte con i francesi. Persino le donne avevano partecipato ai combattimenti, ed una ragazzina aveva marciato in testa agli Schützen [milizie territoriali tirolesi, n.d.t.]. Suo padre, un commilitone, glielo aveva descritto spesso. Nel 1907 mi recai per la prima volta nel Primiero e volli sentire la storia con maggior dettaglio, poiché presupponevo che la tradizione dovesse essere molto viva. Tuttavia non solo non trovai nessuno che avesse saputo alcunchè di quei fatti, ma mi si assicurò che doveva indubbiamente trattarsi di uno scambio di persona con la ragazza di Spinga [paesino della val d’Isarco, n.d.t.] : verosimilmente, il vecchio bracciante aveva sentito dire qualcosa della ragazza di Spinga e su questo aveva intessuto la sua bella trama; in ogni caso, in Primiero non era mai esistita una simile eroina. Volevo già dar credito a queste affermazioni, quando mi capitò in mano per caso un vecchio libro di storia italiano, che trattava di fatti analoghi avvenuti in Primiero nel 1809. Esso sosteneva che lì si era combattuto molto aspramente, e che una nobile signorina di nome Giuseppina Negrelli de’Zorzi si era posta alla testa dei territoriali “infondendo coraggio nei suoi soldati, e dando molte prove di ardire e bravura”. Quello che il vecchio bracciante mi aveva raccontato era dunque tutto vero.
Nell’inverno 1887/1888 fui a lungo malato, e perciò mia madre mi procurò un’infermiera. Si trattava di una vecchia signora della val di Fiemme, e la si chiamava soltanto “la vetja Lena” (la vecchia Lena). A lei – che non rividi mai più – devo i miei più sentiti ringraziamenti, poiché contribuì in modo determinante al mio sviluppo spirituale, raccontandomi le mie prime leggende. Per quanto lacunosa possa essere stata, l’impressione fu una di quelle da cui non ci si libera più. Quando poi, nel 1909, visitai la val di Fiemme, supponevo che ogni persona dovesse conoscere quelle storie. Tuttavia mi ci volle molto per trovare un vecchio pastore che ne sapesse ancora qualcosa. E poi, sulle prime dovetti essere molto paziente nel porre le mie domande, per riuscire a comprendere meglio lo svolgimento delle storie, come me le aveva raccontate quella vecchia signora. In queste storie fiemmazze giocava un ruolo fondamentale la boscosa montagna del Lagorai, assieme al lago dallo stesso nome. Molti anni più tardi, quando venne solennemente inaugurata la ferrovia della val di Fiemme a trazione elettrica, ebbi l’occasione di parlare con diversi fiemmazzi e di chiedere loro delle storie e delle leggende della loro valle. Concordemente mi spiegarono di non aver mai sentito nemmeno un accenno ad un lago sul Lagorai, né a qualsivoglia saga o racconto che vi fosse collegato. Dubitavano addirittura che esistesse un lago del genere. Tuttavia esso è indicato su tutte le migliori cartine ed ha un lunghezza di 600 metri. Sicuramente si trova in posizione molto nascosta, e lo conoscono solo i boscaioli ed i cacciatori.
Nel 1905 sentii parlare per la prima volta, in val Badia, del bosco “Amarida”, che si trova più ad est. Più tardi l’ampezzano Lacedelli mi disse che questo bosco si stende dalla val Costeana fino alla Croda da Lago. Essendo morto Lacedelli, nessuno volle ammettere che nella zona dell’ampezzano fosse mai esistito un bosco di nome “Amarida”. Esisteva tuttavia un documento (del 25 luglio 1608), secondo il quale la stessa municipalità dell’ampezzano aveva concesso la licenza di tagliare alberi nel bosco Amarida e di venderne il legname esentasse (“di poter tagliare e vendere franco di dazio il bosco di Amarida”). La tradizione, che ormai era ancora nota solo ad alcuni singoli, aveva avuto ragione anche in questo caso (cfr. p.324 in alto).
Diversi dei miei critici hanno ostinatamente sostenuto che in val Gardena non esistessero tradizioni correlate ad un antico trovatore. Ma la migliore conoscitrice della poesia locale gardenese, Maria Veronica Rubatscher, nel suo “Storie della vecchia Gardena” ci dice che la leggenda del “cavaliere mano di ferro” le è ben nota, anche se in forma fortemente modificata. La Rubatscher conosce anche la leggenda di Soreghina e fornisce diversi particolari sul “Regno dei Fanes”.
La mia “Regina dei Croderes”, che certamente ha subito dei forti influssi friulani, è stata rifiutata dai conoscitori della zona ampezzana e di quella cadorina con l’appunto che non avevano mai sentito nulla di simile, e soprattutto che non esiste alcuna leggenda sulle Marmarole; in particolare la concezione apparentemente matriarcale di una “regina” di queste montagne sarebbe completamente campata in aria. Ora, lo scrittore italiano Marte Zeni (sulla Rivista Mensile del Club Alpino, aprile 1934, p.196 sg.) racconta una storia – per il resto con tutt’altra trama – su una “Reginetta delle Marmarole”. Sebbene per questo egli si sia profuso in attacchi contro di me, non me ne sono risentito. Anzi, l’impressionante diversità delle nostre versioni della storia si esprime a favore dell’esistenza di una base comune sprofondata nella notte dei tempi. Non è tuttavia necessario che questa base sia sorta sul luogo; può anche esservi migrata.
Da sempre ho espresso il concetto che la poesia peculiare degli abitanti delle Dolomiti non sia circoscritta alle montagne dolomitiche, ma fosse un tempo pertinente ad una zona più ampia, da cui gradualmente è stata ricondotta alle sole Dolomiti, il suo ultimo boschetto sacro, il suo asilo, il suo “giardino delle rose”. Sostengo con forza quanto affermato da Max Haushofer che, nella sua eccellente valutazione delle leggende dell’alta Baviera, scrive: “Dobbiamo ringraziare il cielo che quel popolo recentemente immigrato nelle Alpi si sia portato dietro il suo castello di concezioni e di forme mitiche, e per queste forme abbia adottato le zone più selvagge ed inaccessibili delle alte montagne come insediamenti abitativi creati dalla natura.”^) I guerrieri a cavallo, per esempio, che non possono essere un concetto originario delle zone montane, nelle vecchie leggende (ed ancor oggi nelle feste nuziali della Gardena e dell’ampezzano) hanno un ruolo notevole; ciò significa quindi che, un tempo, delle stirpi guerriere, i cui nobili dovevano andare a cavallo, devono essere giunti nelle Dolomiti dalle grandi pianure. Dappertutto, fin dagli acquitrini delle lagune e dall’azzurro Adriatico in su, si mostrano le tracce di una poesia che ha trovato nelle montagne delle Dolomiti la sua tarda sede principale. Parti di racconti, che evidentemente appartengono alla val Gardena o alla Badia, si trovano diffuse fino all’Alpago e fra i marinai delle lagune. Non mi sono mai risparmiato nel prendere questo materiale proprio dove l’ho trovato, e rimetterlo assieme sensatamente. Anch’io ho cercato di completare e migliorare sempre più il mio quadro delle leggende, nel corso dei decenni. Si dice che non avrei dovuto farlo, che anzi avrei dovuto trascrivere esattamente il tutto parola per parola, così come mi era stato raccontato. Questo ho spesso cercato di farlo e talvolta l’ho anche fatto, ma chi conosce i Ladini, i loro dialetti e le loro sostanziali varianti, ed ha scritto qualcosa in uno di quei dialetti, ne apprezza la difficoltà. Ci si accontenta perlopiù di renderne la trascrizione nella propria lingua o di conservarne il senso nella mente, per utilizzarlo più tardi in condizioni opportune. Lo stesso Wilhelm Grimm ammette esplicitamente che nella redazione della sua raccolta di favole “nelle parole, nell’ordine dell’esposizione, nelle similitudini e nei paragoni non si può conservare una grande severità” ed io mi sono comportato come lui, “per amore del quadro generale” (Lettera ad Arnim del 28 gennaio 1813). Oggi sappiamo che egli aveva “plasmato” le favole nel perseguire “la meta di un’unità stilistica”. Ossia, egli attinse all’anima del popolo e diede alle favole quella forma che meglio rappresentava quest’anima. – Come Albert Wesselski mette in evidenza nell’introduzione alle sue “Favole tedesche prima dei Grimm” (Brno, Rohrer, 1938, p.XXV), se i fratelli Grimm si fossero sforzati di essere completamente fedeli alle tradizioni, “avrebbero riportato le favole così come un semplice narratore avrebbe desiderato di poterle riportare”.
Naturalmente possiedo anche dei testi ladini che sono stati trascritti con cura; appartengono a diversi dialetti. Alcuni di questi testi li ho pubblicati. Molti peraltro mi sono andati perduti durante gli anni di guerra 1916 e 1917, avendoli composti sul campo o essendomeli portati dietro sul campo.
La ricerca professionale sulle leggende esige – a prescindere dalla trascrizione dei testi senza apportare modifiche – anche l’identificazione della fonte, ossia della persona cui sono dovuti i dati. Il concetto di ciò, nei primi anni del mio lavoro, mi mancava del tutto. Anzi, di più: allora apprezzavo ancora il fascino della fonte sconosciuta, in cui scorgevo quasi una benedizione. Perciò inizialmente mi era talvolta sgradito di prestare attenzione a quelle determinate persone, che per me erano da prendere in particolare considerazione – no, molto più bello mi sembrava imbattermi, in qualche luogo sull’orlo del bosco, in uno sconosciuto, un boscaiolo od un pastore, da cui potessi apprendere qualcosa. Questi sconosciuti mi sembravano recare in sé l’anima del territorio. Non volevo assolutamente sapere chi fossero; lo avrei sentito come una diminuzione del valore della testimonianza. E certo con tali incontri del tutto insperati ho raccolto le informazioni di maggior valore – talora in una conversazione molto breve. Il mio occhio si faceva sempre più sicuro nel riconoscere quelle persone che sapevano dire qualcosa di utile. Naturalmente, talvolta cascai anche male. Per esempio, un vecchio guardaboschi cui avevo chiesto dei toponimi locali, la sera stessa fece ancora una lunga strada fino al più vicino posto di polizia per informare che mi aggiravo nel bosco e gli ero sembrato molto sospetto. Questo accadde nel 1911 in val di Fiemme. Un’altra volta vidi, in una macchia di abeti all’uscita della val Duron, una vecchia che raccoglieva la legna. Mi avvicinai a lei ed ebbi l’impressione che fosse una di quelle persone ben informate che mi sarebbero tornate utili. Dopo circa dieci passi mi rivolsi a lei e cercai di parlarle. Ma quella mi gettò soltanto un’occhiata sospettosa, raccattò il suo fascio di legna e se ne andò via in fretta. Comunque lo stesso giorno incontrai altre due persone che rimasero a lungo sedute sul sentiero assieme a me e mi seppero raccontare di tutto.
Ciò che mi offrivano i miei informatori erano certamente solo dei frammenti. Questo non mi spaventava, poiché quando li esaminavo mi dicevo che ogni racconto in origine doveva essere stato qualcosa di compiuto, e mi sforzavo di ricostruirlo come se avessi potuto sentito per intero. Queste ricerche e interpretazioni, percezioni e strutture, non erano sempre vane, poiché sono riuscito a conseguire il risultato che i vecchi, cui ho riportato i racconti che avevo ricostruito, concordavano vivacemente con me e dicevano che era stato proprio così; li avevano in gran parte dimenticati, ma ora tutto gli tornava chiaro alla mente. Comprensibilmente un tale lavoro di ricostruzione richiede una grande confidenza con la terra e la gente ed il materiale, e ci vuole anche molto tempo per depurarlo del tutto dai desideri personali. Io mi sono sforzato di eliminarli, ma ci sono riuscito a malapena.
I miei amici e critici letterari si dividono in due gruppi sulla valutazione dei risultati del mio lavoro. Gli appartenenti al primo dicono: tutto questo se l’è inventato Wolff, dunque non vale niente! Quelli dell’altro gruppo, peraltro, affermano che non ho fatto altro che trascrivere semplicemente il tutto, quindi al di fuori da tutte le regole; partendo da questa strana nozione, estraggono qua e là qualche passaggio per usarlo come meglio gli pare. Essi trascurano il fatto che le leggende popolari rappresentano un patrimonio comune solo se si ricavano dal popolo stesso.
A fronte di questo attacco su due fronti, vorrei offrire all’egregio lettore la mia opera perché la prenda per quello che vuole essere: un tentativo di recuperare nella sua struttura completa qualcosa di perduto. L’arte del racconto degli abitanti delle Dolomiti aveva raggiunto il proprio apice attorno ai tempi delle crociate; da allora ha iniziato a deperire e presto sarà completamente svanita. Il compito che mi sono prefisso è stato di ricavare dalle sue ultime tracce quanto possa aver brillato al tempo del suo massimo splendore. Questo compito somiglia al restauro di un edificio di cui siano rimaste soltanto le macerie. “Tuttavia,” dice Overbeck, “per il ricercatore i ruderi e le macerie della tradizione non soltanto non hanno nulla di spaventoso, bensì costituiscono la parte più bella, creativa, divinatoria del suo lavoro^^)”. Questo comporta pazienza, e qualità di stile. Può essere che un altro avrebbe posseduto entrambe queste qualità in maggior misura di me; ma non c’era più tempo da perdere, perché il sipario stava ormai per calare. Ancora qualche anno, e nella terra delle Dolomiti si sarebbe potuto esclamare con Hölderlin:

Come da una pira funebre si leva poi in alto
soltanto un fumo dorato,
La leggenda trapassa,
Ed ora si dissolve nella nostra mente scettica,
e nessuno sa come le succeda!
^^^)


Bolzano, gennaio 1944


Karl Felix Wolff

_______________

Note:

*)La mia intuizione che la « Splanedis » fosse proprio la pianura veneta (cfr. Approfondimenti: i popoli delle Dolomiti ) è dunque confortata dallo stesso Wolff, che presumibilmente dovette raccogliere l’informazione in Alpago (n.d.t.)

**)Cfr. Paul de Chastonay, “Nella Val d’Anniviers”, Lucerna 1939, p.85.

°)Cfr. il capitolo “Il festival dei Ladini”.

°°)Julius Fröbel, “Viaggio nelle valli meno conosciute del lato settentrionale delle Alpi Pennine”, Berlino 1840, p.145

^)Max Haushofer, “Paesaggio alpino e leggende alpine nei monti bavaresi”, Bamberg, Buchner, 1890, p.20.

^^)Johannes Overbeck, “Pompei nei suoi edifici, le sue antichità e le sue opere d’arte”, 2^ ediz., Lipsia 1866, Vol.1, p.2.

^^^)Mi si perdoni l’orribile traduzione. Si ricordi che il mio tedesco è dichiaratamente molto scarso (n.d.t).