LA
PREFAZIONE DI K.F.WOLFF ALL'OTTAVA EDIZIONE DELLE SUE "DOLOMITENSAGEN"
Con
questa nuova prefazione, Wolff
presenta un quadro sintetico dei suoi intendimenti e delle sue
difficoltà nello scrivere le “Dolomitensagen”
e risponde in parte ai suoi critici. Egli dichiara apertamente
che, già alla fine dell’800, gran parte delle leggende
più antiche erano quasi completamente scomparse. Con
gran fatica era riuscito a raccoglierne alcuni frammenti, da
cui “intuì”, - almeno in parte in base alle
sue personali concezioni - quali dovessero essere state la trama
originale e lo svolgimento della leggenda. Egli ammette candidamente
di non essersi comportato da ricercatore etnologico professionista,
per lo più perché, almeno nei suoi primi anni
di lavoro, non aveva idea di cosa questo volesse dire. Ad ogni
modo, egli si giustifica affermando che, se non ci avesse posto
mano subito, l’intero patrimonio sarebbe stato perduto
per sempre.
PREFAZIONE
ALL’OTTAVA EDIZIONE
(con integrazioni)
“Noi,
diventati estranei al nostro stesso passato, possiamo
solo cercare goffamente di riannodare il nuovo col vecchio.”
(Jakob
Grimm nel “Giornale di antichità
tedesche” di M.Haupt, 1841, vol.1, p.575)
“La conoscenza degli antichi popoli nelle valli dell’Isarco
e della Rienza è scomparsa”. Così lamentava
nella sua autobiografia Karl Wohlgemut, un collezionista di
dati etnologici. Questo è massimamente vero per le leggende,
le favole e le tradizioni; nelle nostre terre, tuttavia, è
reso ancor più pesante dal fatto che alcune persone se
ne vergognano e pertanto negano risolutamente tutto ciò
che ancora saprebbero. Questo è altrettanto evidente
per i tedeschi come per i ladini. Prima di accostarmi maggiormente
alla questione, devo fornire al lettore che non conosca la zona
alcuni dati sul popolo dei Ladini. La zona delle Dolomiti (da
Bolzano a Belluno e da Brunico alla val Sugana) è abitata
nell’ovest e nel nord da tedeschi, nel sud e sudovest
soprattutto da italiani, ma nelle sue parti più interne
dai Ladini. Essi sono i discendenti (in modo ancora molto controverso
dal punto di vista sia linguistico, sia dell’etnologia
storica) degli antichi Reti. Questi Ladini, fin dal tempo dei
romani, ma soprattutto nei secoli successivi sotto l’influsso
della Chiesa, hanno accettato il latino modificando le loro
precedenti parlate. Questo non è avvenuto solo nelle
valli dolomitiche, ma in quasi tutte le Alpi orientali, in quanto
la comunità parlante la stessa lingua, di cui i Ladini
costituiscono gli ultimi resti, deve (in base alle ultime ricerche)
essere stata dominante dall’Appennino al Danubio e dal
piano del Gottardo fino all’Istria. Con l’avanzata
dei popoli tedeschi da nord e della lingua italiana da sud l’area
linguistica ladina si frammentò dividendosi in tre sottogruppi:
uno nei Grigioni, uno nelle Dolomiti ed uno in Friuli. Questo
“reto-romancio” domina ancor oggi, nonostante tutte
le contrazioni e le lacerazioni, dall’interno della Svizzera
fino all’Adriatico, ed è una particolare lingua
neolatina. Essa si colloca più vicina al francese ed
allo spagnolo che non all’italiano, poiché essa
conserva la finale in –s, che è assente nell’italiano.
La lingua ladina, o reto-romancia, comprende oltre 70 dialetti,
di cui una dozzina appartengono al ladino dolomitico, per quanto
la popolazione dei ladini dolomitici conti soltanto circa 22.000
persone. Diversi indizi dimostrano che un tempo in tutta la
zona reto-romancia sussistevano animate interrelazioni e scambi
intellettuali. In ogni caso la poesia delle leggende e delle
fiabe dei ladini dolomitici si occupa anche di concetti che
giacciono al di fuori della loro patria ristretta; così
essa conosce le vette ghiacciate della catena alpina principale;
ma conosce anche la pianura veneta (Splanèdis)*)
e la “grande acqua del margine” (àyva
Limidona), ossia il mare. Più in là, conosce
le città di Aquileia (Algleya) e Venezia (Anyezhia),
come pure uno dei grandi laghi dell’Alta Italia (Layadüra).
Si noti esplicitamente che strettissime corrispondenze paesaggistiche
ed etnologiche legano le Dolomiti con le Alpi Carniche; tuttavia
queste ultime costituiscono per l’intero Friuli ed il
suo popolo il vero e proprio cuore della regione, una fontana
della giovinezza da cui le peculiarità friulane zampillano
sempre rinnovate.
Una scrittura ladina standardizzata e universalmente riconosciuta
non esiste ancora. Nel lavoro che segue occorre osservare che
“zh” si pronuncia “j”
alla francese e “sh” si pronuncia
“sch” alla tedesca [in italiano,
come “sc” di “scena”,
N.d.T.]. Il Ladino “v” corrisponde
al tedesco “w” [ossia a “v”
italiana, N.d.T.]. Tutti i rimanenti fonemi usati dal ladino
si devono leggere come in tedesco. “Gh”
suona un po’ diverso da “g”,
cosa tuttavia che passa del tutto inosservata ad un lettore
tedesco; la “h” rimane muta. (Chi
volesse informarsi più da vicino sul reto-romancio può
utilizzare le seguenti opere: P.J.Andeer: “Grammatica
elementare reto-romancia”, Füssli, Zurigo; Theodor
Gartner, 1883: “Grammatica reto-romancia”,
Henninger, Heilbronn; Theodor Gartner, 1910: “Manuale
di lingua e letteratura reto-romancia”, Halle; quest’ultima
è specialmente raccomandabile. Una visione d’assieme
si trova sullo “Schlern” 1955, p.240 sgg.)
Una volta, nella vita pubblica dei Ladini dolomitici giocavano
un ruolo importante i teatri all’aperto, in cui nei giorni
di sole invernali si davano rappresentazioni di parecchie ore.
Si scopava via la neve, si stendevano al suolo delle assi e
gli spettatori stavano in piedi, in modo da avere il sole alle
spalle. Gli attori recitavano alla piena luce del sole. Durante
gli intervalli (ma non durante lo spettacolo) si mangiava qualcosa
in piedi. Le scene particolarmente commoventi dovevano essere
ripetute più volte. Col tramonto del sole (kan soredl
va florì, ossia “quando il sole fiorisce”)
ci si affrettava verso casa e solo allora si faceva cucina.
L’arte scenica comprendeva anche e soprattutto la recitazione
di canzoni ed il racconto. Questi venivano declamati nei filò.
Che i racconti presentati siano stati brevi, come trasparrebbe
dai frammenti che oggi ne rimangono, è un concetto completamente
sbagliato. In una sera di filò per lo più si presentava
un solo racconto, e questo durava pressappoco un paio d’ore.
C’era poi chi sovrintendeva alla rappresentazione, provvedendo
abilmente a suddividere i racconti ed a rinviarne la continuazione
alla serata successiva. In Alpago, una zona circondata dai monti
sul margine sudorientale delle Dolomiti, viveva ancora sul finir
del secolo un vecchio che soleva far durare i suoi racconti
da filò per un’intera settimana. Ancora nel 1932,
quando mi trattenni in Alpago per l’ultima volta, la gente
parlava con ammirazione di questo cantastorie, ma nessuno riusciva
ad emularlo. Tra i tirolesi tedeschi questo tipo di cantastorie
veniva definito “a feiner Prechter” [“un
fine dicitore”]. Secondo Karl
Staudacher (“Schlern”, 1933 p.320)
in Pusteria questa espressione è ricordata ancora oggi;
essa si rifà al cimbrico “prechten”
= parlare. A Louc, nel Vallese, una vecchia
sapeva cantare a memoria una “cantique”
di 114 strofe di otto versi)**) .
I teatri popolari sono scomparsi da tempo ed anche l’arte
del racconto è decaduta. Tuttavia la cosa peggiore è
costituita da certa informazione, o meglio disinformazione,
che alla gente fa apparire indegne e risibili tutte le tradizioni
del passato e l’intero complesso culturale del tempo antico.
Così un ampezzano non voleva assolutamente ammettere
che lì un tempo si raccontasse delle anguane
(le fate delle acque); messo alle strette, osservò finalmente
con una beffarda alzata di spalle che si trattava di una vecchia,
sciocca superstizione. Un altro ampezzano, con cui discussi
di questo, fece un cenno di comprensione e disse: “i
no vò pi savè pi de nuya de sta roba vetjes”
(non vogliono più saper nulla di questa roba vecchia).
Una vecchia, che in gioventù come “britera”
(malgara) aveva udito ancora raccontare molte leggende, con
tutta la sua buona volontà non potè darmi che
informazioni molto lacunose ed infine osservò: “l’era
‘n vetjo, kel savea kontà duta sta robes, me l’è
tanto ke l’è morto” (c’era un
vecchio che sapeva raccontare tutte queste cose, ma è
tanto tempo che è morto).
Che per l’enrosadira nelle Dolomiti esistessero antiche
denominazioni indigene, lo sanno ancora oggi molte persone,
ma non riescono più a ricordarsele. “I te an
dut desmintjà” (hanno dimenticato tutto),
scrive il ricercatore friulano di leggende Malattia della Vallata.
Sul grande ciclo leggendario del “Regno dei Fanes”
due donne della val Badia, che per il resto erano ben informate,
seppero dirmi solo quanto segue: “La ite te Fanis
éle tsakan de gran veres anter ki de Fanis e i Lumbertsh”
(lì in Fanes ci fu una grande guerra tra la gente di
Fanes ed i Longobardi) [qui Wolff
equivoca: i “Lumbertsh” per i Ladini non
sono solo i Longobardi, ma (spregiativamente) gli “italiani”
in generale, n.d.t.]. Sulla sacra fiamma che l’aquila
preserva sul Sasso Cavallo, si espressero
in questo modo: “Sul Sass del la Kruzh valyade odòi
na gran flama, ke zho ìa e kà e à l korù
brum e kötjen” (sul Sass de la Crusc si vede
talvolta una grande fiamma che va qua e là ed è
di colore rosso e blu). Avevano sentito il nome di Dolasilla
e pensavano fosse stata una principessa di quei Fanes. Sapevano
qualcosa anche di una lega dei Fanes con le marmotte.
Infine, avevano sentito il nome “Ödl-de-Nöt”
e pensavano che indicasse qualcosa di spettrale. Una terza donna
della stessa valle notava “da nos kuntai tröp
dla Dolasilla” (da noi si raccontavano molte cose
su Dolasilla) e soggiungeva “Dolasilla aré
la fia dla rezhina de’Fanes” (Dolasilla era
la figlia della regina dei Fanes), questo lo aveva già
sentito da bambina. Una vecchia gardenese, che aveva lavorato
molto negli alpeggi, pretese peraltro di non saperne nulla.
Quando da parte mia cominciai a raccontarle di questo e di quello,
ella disse: “Tel storyes éy audì dai
tshentsh” (di queste storie ne ho sentite a centinaia).
Sul regno dei Fanes osservò: “De
la mont de Fanes éy audì tropes storyes da temèy
dai vedli da tzakan, ma n’è méy kerdù
dut – i m’è desmintjà”
(sulle alpi di Fanes a suo tempo ha sentito dai vecchi molte
storie sinistre, ma non ci ho mai creduto, ed ora me ne sono
dimenticata°) .
All’inizio del 19° secolo Julius Fröbel compì
un viaggio di studio nel Vallese e ci scrisse sopra un libro.
Vi descrisse come la gente, alla sua domanda se non conoscessero
delle vecchie canzoni, avesse risposto che tali canzoni esistevano
ancora, ma non contenevano altro che sciocchezze (“des
folies”) e le cantavano solo i vecchi ubriaconi. Con
fatica, disse Fröbel, era riuscito a farsi raccontare prima
un passo di una di queste canzoni, e infine l’intera ballata°°)
. La canzone è molto bella nella forma e nel contenuto.
Purtroppo possiamo dedurne che un mucchio di antiche meravigliose
tradizioni popolari devono essere andate perdute per l’incomprensione
e la presunzione della cultura.
Ludwig Steub riferisce nel suo “Tre estati in Tirolo”
(Monaco 1846, p.219 sg.) che le domande sulle leggende popolari
vengono talvolta considerate un insulto. Siccome un forestiero
aveva pubblicato alcune leggende della Ötztal, i più
vecchi della valle si recarono al tribunale distrettuale per
citarne in giudizio l’estensore, in quanto si era fatto
beffe della loro patria con delle vecchie fiabe la cui interpretazione
si era persa già da molto tempo. Il tribunale spiegò
loro tuttavia che non si era trattato affatto di una mancanza
di rispetto, al che uno di questi valligiani della Ötztal
prese la penna per lamentarsi sul “Tiroler Boten”
che lo scrittore straniero aveva rappresentato gli abitanti
della valle “come se fossero usciti dai boschi l’altro
ieri e fossero tuttora ottenebrati dalle più profonde
superstizioni”. Dovette tuttavia concedere che le favole
di cui si parlava venivano ancora raccontate nei filò
nelle lunghe sere d’inverno.
I massi coppellati, i toponimi e le leggende delle alte valli
del Vallese, trattati da Reber verso la fine del 19° secolo
nella letteratura svizzera, verso il 1936 erano conosciuti ai
locali solo come dei relitti dell’immaginazione, rivelando
esplicitamente quanto le tradizioni fossero decadute. (Vedi
la relazione annuale n.28 della Società Svizzera di Preistoria,
1936 p.93 sgg.).
Il già citato desiderio di negare ogni cosa assume talvolta
delle forme incredibilmente decise. Nel 1932 la più vecchia
donna del Livinallongo non voleva ammettere che una volta sul
monte Pore ci fosse stata una miniera, e quando le accennai
a numerose leggende che ricordano quella miniera (p.es. la storia
dei “Fiori del ferro”), spiegò queste presunte
leggende come delle invenzioni ridicole, e dieci altre persone
le diedero ragione. Sarei stato propenso a crederle se non avessi
avuto con me le annotazioni che avevo registrato 24 anni prima.
A quel tempo un pastore di Andràz non solo mi raccontò
la leggenda dei “fiori del ferro” ed altre storie
di miniera, ma mi mostrò anche il sentiero lungo il versante
della montagna da cui il ferro veniva portato a valle, e chiamò
questo sentiero “Tryol de la vana”.
Quando avevo otto o nove anni, un vecchio bracciante del Primiero
mi raccontò che lì nel 1809 si erano verificate
delle aspre lotte con i francesi. Persino le donne avevano partecipato
ai combattimenti, ed una ragazzina aveva marciato in testa agli
Schützen [milizie territoriali tirolesi, n.d.t.]. Suo padre,
un commilitone, glielo aveva descritto spesso. Nel 1907 mi recai
per la prima volta nel Primiero e volli sentire la storia con
maggior dettaglio, poiché presupponevo che la tradizione
dovesse essere molto viva. Tuttavia non solo non trovai nessuno
che avesse saputo alcunchè di quei fatti, ma mi si assicurò
che doveva indubbiamente trattarsi di uno scambio di persona
con la ragazza di Spinga [paesino della val d’Isarco,
n.d.t.] : verosimilmente, il vecchio bracciante aveva sentito
dire qualcosa della ragazza di Spinga e su questo aveva intessuto
la sua bella trama; in ogni caso, in Primiero non era mai esistita
una simile eroina. Volevo già dar credito a queste affermazioni,
quando mi capitò in mano per caso un vecchio libro di
storia italiano, che trattava di fatti analoghi avvenuti in
Primiero nel 1809. Esso sosteneva che lì si era combattuto
molto aspramente, e che una nobile signorina di nome Giuseppina
Negrelli de’Zorzi si era posta alla testa dei territoriali
“infondendo coraggio nei suoi soldati, e dando molte prove
di ardire e bravura”. Quello che il vecchio bracciante
mi aveva raccontato era dunque tutto vero.
Nell’inverno 1887/1888 fui a lungo malato, e perciò
mia madre mi procurò un’infermiera. Si trattava
di una vecchia signora della val di Fiemme, e la si chiamava
soltanto “la vetja Lena” (la vecchia Lena).
A lei – che non rividi mai più – devo i miei
più sentiti ringraziamenti, poiché contribuì
in modo determinante al mio sviluppo spirituale, raccontandomi
le mie prime leggende. Per quanto lacunosa possa essere stata,
l’impressione fu una di quelle da cui non ci si libera
più. Quando poi, nel 1909, visitai la val di Fiemme,
supponevo che ogni persona dovesse conoscere quelle storie.
Tuttavia mi ci volle molto per trovare un vecchio pastore che
ne sapesse ancora qualcosa. E poi, sulle prime dovetti essere
molto paziente nel porre le mie domande, per riuscire a comprendere
meglio lo svolgimento delle storie, come me le aveva raccontate
quella vecchia signora. In queste storie fiemmazze giocava un
ruolo fondamentale la boscosa montagna del Lagorai, assieme
al lago dallo stesso nome. Molti anni più tardi, quando
venne solennemente inaugurata la ferrovia della val di Fiemme
a trazione elettrica, ebbi l’occasione di parlare con
diversi fiemmazzi e di chiedere loro delle storie e delle leggende
della loro valle. Concordemente mi spiegarono di non aver mai
sentito nemmeno un accenno ad un lago sul Lagorai, né
a qualsivoglia saga o racconto che vi fosse collegato. Dubitavano
addirittura che esistesse un lago del genere. Tuttavia esso
è indicato su tutte le migliori cartine ed ha un lunghezza
di 600 metri. Sicuramente si trova in posizione molto nascosta,
e lo conoscono solo i boscaioli ed i cacciatori.
Nel 1905 sentii parlare per la prima volta, in val Badia, del
bosco “Amarida”, che si trova più ad est.
Più tardi l’ampezzano Lacedelli mi disse che questo
bosco si stende dalla val Costeana fino alla Croda da Lago.
Essendo morto Lacedelli, nessuno volle ammettere che nella zona
dell’ampezzano fosse mai esistito un bosco di nome “Amarida”.
Esisteva tuttavia un documento (del 25 luglio 1608), secondo
il quale la stessa municipalità dell’ampezzano
aveva concesso la licenza di tagliare alberi nel bosco Amarida
e di venderne il legname esentasse (“di poter tagliare
e vendere franco di dazio il bosco di Amarida”). La tradizione,
che ormai era ancora nota solo ad alcuni singoli, aveva avuto
ragione anche in questo caso (cfr. p.324 in alto).
Diversi dei miei critici hanno ostinatamente sostenuto che in
val Gardena non esistessero tradizioni correlate ad un antico
trovatore. Ma la migliore conoscitrice della poesia locale gardenese,
Maria Veronica Rubatscher, nel suo “Storie della vecchia
Gardena” ci dice che la leggenda del “cavaliere
mano di ferro” le è ben nota, anche se in forma
fortemente modificata. La Rubatscher conosce anche la leggenda
di Soreghina e fornisce diversi particolari sul “Regno
dei Fanes”.
La mia “Regina dei Croderes”, che certamente
ha subito dei forti influssi friulani, è stata rifiutata
dai conoscitori della zona ampezzana e di quella cadorina con
l’appunto che non avevano mai sentito nulla di simile,
e soprattutto che non esiste alcuna leggenda sulle Marmarole;
in particolare la concezione apparentemente matriarcale di una
“regina” di queste montagne sarebbe completamente
campata in aria. Ora, lo scrittore italiano Marte Zeni (sulla
Rivista Mensile del Club Alpino, aprile 1934, p.196 sg.) racconta
una storia – per il resto con tutt’altra trama –
su una “Reginetta delle Marmarole”. Sebbene
per questo egli si sia profuso in attacchi contro di me, non
me ne sono risentito. Anzi, l’impressionante diversità
delle nostre versioni della storia si esprime a favore dell’esistenza
di una base comune sprofondata nella notte dei tempi. Non è
tuttavia necessario che questa base sia sorta sul luogo; può
anche esservi migrata.
Da sempre ho espresso il concetto che la poesia peculiare degli
abitanti delle Dolomiti non sia circoscritta alle montagne dolomitiche,
ma fosse un tempo pertinente ad una zona più ampia, da
cui gradualmente è stata ricondotta alle sole Dolomiti,
il suo ultimo boschetto sacro, il suo asilo, il suo “giardino
delle rose”. Sostengo con forza quanto
affermato da Max Haushofer che, nella sua eccellente valutazione
delle leggende dell’alta Baviera, scrive: “Dobbiamo
ringraziare il cielo che quel popolo recentemente immigrato
nelle Alpi si sia portato dietro il suo castello di concezioni
e di forme mitiche, e per queste forme abbia adottato le zone
più selvagge ed inaccessibili delle alte montagne come
insediamenti abitativi creati dalla natura.”^)
I guerrieri a cavallo, per esempio, che non possono essere un
concetto originario delle zone montane, nelle vecchie leggende
(ed ancor oggi nelle feste nuziali della Gardena e dell’ampezzano)
hanno un ruolo notevole; ciò significa quindi che, un
tempo, delle stirpi guerriere, i cui nobili dovevano andare
a cavallo, devono essere giunti nelle Dolomiti dalle grandi
pianure. Dappertutto, fin dagli acquitrini delle lagune e dall’azzurro
Adriatico in su, si mostrano le tracce di una poesia che ha
trovato nelle montagne delle Dolomiti la sua tarda sede principale.
Parti di racconti, che evidentemente appartengono alla val Gardena
o alla Badia, si trovano diffuse fino all’Alpago e fra
i marinai delle lagune. Non mi sono mai risparmiato nel prendere
questo materiale proprio dove l’ho trovato, e rimetterlo
assieme sensatamente. Anch’io ho cercato di completare
e migliorare sempre più il mio quadro delle leggende,
nel corso dei decenni. Si dice che non avrei dovuto farlo, che
anzi avrei dovuto trascrivere esattamente il tutto parola per
parola, così come mi era stato raccontato. Questo ho
spesso cercato di farlo e talvolta l’ho anche fatto, ma
chi conosce i Ladini, i loro dialetti e le loro sostanziali
varianti, ed ha scritto qualcosa in uno di quei dialetti, ne
apprezza la difficoltà. Ci si accontenta perlopiù
di renderne la trascrizione nella propria lingua o di conservarne
il senso nella mente, per utilizzarlo più tardi in condizioni
opportune. Lo stesso Wilhelm Grimm ammette esplicitamente che
nella redazione della sua raccolta di favole “nelle parole,
nell’ordine dell’esposizione, nelle similitudini
e nei paragoni non si può conservare una grande severità”
ed io mi sono comportato come lui, “per amore del quadro
generale” (Lettera ad Arnim del 28 gennaio 1813). Oggi
sappiamo che egli aveva “plasmato” le favole nel
perseguire “la meta di un’unità stilistica”.
Ossia, egli attinse all’anima del popolo e diede alle
favole quella forma che meglio rappresentava quest’anima.
– Come Albert Wesselski mette in evidenza nell’introduzione
alle sue “Favole tedesche prima dei Grimm”
(Brno, Rohrer, 1938, p.XXV), se i fratelli Grimm si fossero
sforzati di essere completamente fedeli alle tradizioni, “avrebbero
riportato le favole così come un semplice narratore avrebbe
desiderato di poterle riportare”.
Naturalmente possiedo anche dei testi ladini che sono stati
trascritti con cura; appartengono a diversi dialetti. Alcuni
di questi testi li ho pubblicati. Molti peraltro mi sono andati
perduti durante gli anni di guerra 1916 e 1917, avendoli composti
sul campo o essendomeli portati dietro sul campo.
La ricerca professionale sulle leggende esige – a prescindere
dalla trascrizione dei testi senza apportare modifiche –
anche l’identificazione della fonte, ossia della persona
cui sono dovuti i dati. Il concetto di ciò, nei primi
anni del mio lavoro, mi mancava del tutto. Anzi, di più:
allora apprezzavo ancora il fascino della fonte sconosciuta,
in cui scorgevo quasi una benedizione. Perciò inizialmente
mi era talvolta sgradito di prestare attenzione a quelle determinate
persone, che per me erano da prendere in particolare considerazione
– no, molto più bello mi sembrava imbattermi, in
qualche luogo sull’orlo del bosco, in uno sconosciuto,
un boscaiolo od un pastore, da cui potessi apprendere qualcosa.
Questi sconosciuti mi sembravano recare in sé l’anima
del territorio. Non volevo assolutamente sapere chi fossero;
lo avrei sentito come una diminuzione del valore della testimonianza.
E certo con tali incontri del tutto insperati ho raccolto le
informazioni di maggior valore – talora in una conversazione
molto breve. Il mio occhio si faceva sempre più sicuro
nel riconoscere quelle persone che sapevano dire qualcosa di
utile. Naturalmente, talvolta cascai anche male. Per esempio,
un vecchio guardaboschi cui avevo chiesto dei toponimi locali,
la sera stessa fece ancora una lunga strada fino al più
vicino posto di polizia per informare che mi aggiravo nel bosco
e gli ero sembrato molto sospetto. Questo accadde nel 1911 in
val di Fiemme. Un’altra volta vidi, in una macchia di
abeti all’uscita della val Duron, una vecchia che raccoglieva
la legna. Mi avvicinai a lei ed ebbi l’impressione che
fosse una di quelle persone ben informate che mi sarebbero tornate
utili. Dopo circa dieci passi mi rivolsi a lei e cercai di parlarle.
Ma quella mi gettò soltanto un’occhiata sospettosa,
raccattò il suo fascio di legna e se ne andò via
in fretta. Comunque lo stesso giorno incontrai altre due persone
che rimasero a lungo sedute sul sentiero assieme a me e mi seppero
raccontare di tutto.
Ciò che mi offrivano i miei informatori erano certamente
solo dei frammenti. Questo non mi spaventava, poiché
quando li esaminavo mi dicevo che ogni racconto in origine doveva
essere stato qualcosa di compiuto, e mi sforzavo di ricostruirlo
come se avessi potuto sentito per intero. Queste ricerche e
interpretazioni, percezioni e strutture, non erano sempre vane,
poiché sono riuscito a conseguire il risultato che i
vecchi, cui ho riportato i racconti che avevo ricostruito, concordavano
vivacemente con me e dicevano che era stato proprio così;
li avevano in gran parte dimenticati, ma ora tutto gli tornava
chiaro alla mente. Comprensibilmente un tale lavoro di ricostruzione
richiede una grande confidenza con la terra e la gente ed il
materiale, e ci vuole anche molto tempo per depurarlo del tutto
dai desideri personali. Io mi sono sforzato di eliminarli, ma
ci sono riuscito a malapena.
I miei amici e critici letterari si dividono in due gruppi sulla
valutazione dei risultati del mio lavoro. Gli appartenenti al
primo dicono: tutto questo se l’è inventato Wolff,
dunque non vale niente! Quelli dell’altro gruppo, peraltro,
affermano che non ho fatto altro che trascrivere semplicemente
il tutto, quindi al di fuori da tutte le regole; partendo da
questa strana nozione, estraggono qua e là qualche passaggio
per usarlo come meglio gli pare. Essi trascurano il fatto che
le leggende popolari rappresentano un patrimonio comune solo
se si ricavano dal popolo stesso.
A fronte di questo attacco su due fronti, vorrei offrire all’egregio
lettore la mia opera perché la prenda per quello che
vuole essere: un tentativo di recuperare nella sua struttura
completa qualcosa di perduto. L’arte del racconto degli
abitanti delle Dolomiti aveva raggiunto il proprio apice attorno
ai tempi delle crociate; da allora ha iniziato a deperire e
presto sarà completamente svanita. Il compito che mi
sono prefisso è stato di ricavare dalle sue ultime tracce
quanto possa aver brillato al tempo del suo massimo splendore.
Questo compito somiglia al restauro di un edificio di cui siano
rimaste soltanto le macerie. “Tuttavia,”
dice Overbeck, “per il ricercatore i ruderi e le macerie
della tradizione non soltanto non hanno nulla di spaventoso,
bensì costituiscono la parte più bella, creativa,
divinatoria del suo lavoro^^)”. Questo
comporta pazienza, e qualità di stile. Può essere
che un altro avrebbe posseduto entrambe queste qualità
in maggior misura di me; ma non c’era più tempo
da perdere, perché il sipario stava ormai per calare.
Ancora qualche anno, e nella terra delle Dolomiti si sarebbe
potuto esclamare con Hölderlin:
“Come
da una pira funebre si leva poi in alto
soltanto un fumo dorato,
La leggenda trapassa,
Ed ora si dissolve nella nostra mente scettica,
e nessuno sa come le succeda!”^^^)
Bolzano, gennaio 1944
Karl Felix
Wolff
_______________
Note:
*)La
mia intuizione che la « Splanedis » fosse proprio
la pianura veneta (cfr. Approfondimenti:
i popoli delle Dolomiti ) è dunque confortata dallo
stesso Wolff, che presumibilmente dovette raccogliere l’informazione
in Alpago (n.d.t.)
**)Cfr.
Paul de Chastonay, “Nella Val d’Anniviers”,
Lucerna 1939, p.85.
°)Cfr.
il capitolo “Il festival dei Ladini”.
°°)Julius Fröbel,
“Viaggio nelle valli meno conosciute del lato settentrionale
delle Alpi Pennine”, Berlino 1840, p.145
^)Max Haushofer, “Paesaggio
alpino e leggende alpine nei monti bavaresi”, Bamberg,
Buchner, 1890, p.20.
^^)Johannes Overbeck, “Pompei
nei suoi edifici, le sue antichità e le sue opere d’arte”,
2^ ediz., Lipsia 1866, Vol.1, p.2.
^^^)Mi si perdoni l’orribile
traduzione. Si ricordi che il mio tedesco è dichiaratamente
molto scarso (n.d.t).