INTEGRAZIONI
Le “Integrazioni” di Wolff consistono di una parte generale, interessante soprattutto per quanto riguarda le condizioni della tradizione orale ai suoi tempi, e di una serie di commenti o spiegazioni a proposito di alcune delle singole leggende che compongono le Dolomitensagen. Di queste riporto qui soltanto quel poco che si riferisce al Regno dei Fanes. Il resto, intendo inserirlo in una breve trattazione, leggenda per leggenda, che ho in programma per il futuro, seguendo anche la traccia dell’opera fondamentale di Ulrike Kindl.
I riferimenti alle pagine sono in funzione dell’ultima (sedicesima) edizione delle Dolomitensagen.
Nota: la descrizione che Wolff fa della struttura sociale dei Reti deve ritenersi, vista con gli occhi di oggi, soltanto una sua opinione personale.
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Sulle relazioni sociali dei Reti, come risultano dalle leggende e dalla storia, si può brevemente indicare quanto segue: come in tutti i popoli indoeuropei, deve esserci stata una strutturazione in príncipi, nobiltà guerriera, liberi contadini e servi della gleba. Ogni principe (re) aveva attorno a sé una piccola truppa elitaria di guerrieri di mestiere che andavano a cavallo. Nelle leggende, questo concetto é rispecchiato dappertutto. Ancora oggi appare evidente tanto ai tedeschi quanto ai ladini che nelle occasioni solenni (dunque ai matrimoni ed alle manifestazioni politiche) ci si presentava armati e a cavallo. Questo si rispecchia nel dipinto della nobiltà guerriera descritto e glorificato dai poeti. Dalle stesse fonti emerge anche il concetto apparentemente strano di una vita di corte principesca presso un semplice popolo di montagna. L’intero grande distretto alpino mostra di essere stato suddiviso in strutture sociali di valle e in realtà regionali, che costituivano degli staterelli ed erano governati da dei “re”. La storia ce ne fornisce dei chiari punti d’appoggio. Al tempo dell’imperatore Augusto un “re Cozio” governava un territorio nelle Alpi occidentali che consisteva di 14 comunità liguri. Suo padre e suo figlio furono parimenti “re” prima e dopo di lui. Da quel Cozio prendono nome le “Alpi Cozie”, che si trovano a sud-ovest di Torino. Il “regno” di Cozio comprendeva la città di Segusio [oggi Susa, n.d.t.], importante per i traffici verso la Gallia, tuttavia non può aver contato più di ventimila abitanti. In val Trompia, a nord di Brescia, al tempo dei Romani abitava la stirpe retica dei Trumpilini. Anche questi possono essere stati al massimo in ventimila. Gli antichi devono aver raccolto insieme sotto il nome collettivo di “Reti” molte piccole tribù, come d’altronde espressamente indicato da Svetonio. Da questa sfaccettata immagine degli abitanti delle Alpi preistoriche possiamo intuire una ricca struttura sociale con principati, nobili e cantori, come pure una poesia che accomunava gli uomini e le montagne, una splendida poesia di cui possiamo ancora ritrovare frammentariamente gli ultimi accenti solo nel tesoro delle leggende. L’obiezione che i ladini non possano aver sviluppato alcuna poesia curtense, poiché non possedevano un re, è dunque falsa, perché nella preistoria retica c’erano re e corti a sufficienza. Per quanto riguarda i filò, nella stanza dei filò aveva di gran lunga la preminenza la storia dei re.
Sulla nota a piè di pagina 22: il biologo Johannes Weigelt, di Halle, esprime un pensiero analogo nella suo contributo “Paleontologia” alla “Evoluzione degli organismi” di Gerhard Heberer, Jena 1943, pagg. dalla 131 alla 182), dove scrive: “Non è forse l’arte degli storici il ricostruire un quadro storico ineccepibile a partire da archivi lacunosi e frammentari? L’incompletezza del materiale non autorizza a conclusioni finali troppo estesamente pessimistiche e restrittive.” (p.131).
A pag.23 (Stanza dei filò): una vecchia di Plan de Tjampedel (Campitello in val di Fassa) mi disse quel che segue: “Quando nella stanza dei filò un cantastorie raccontava una storia, era convenuto che le ragazze ascoltassero in silenzio fino alla fine, altrimenti le donne più anziane avrebbero subito fatto loro osservazione. Le ragazze non si potevano concedere nè applausi nè manifestazioni di disappunto, e soprattutto non dovevano chiacchierare l’una con l’altra. Se un racconto era triste, ci si attendeva che le ragazze piangessero. Una che non l’avesse fatto veniva considerata senza cuore, e nessuna madre l’avrebbe desiderata come sposa per il proprio figlio. La stanza dei filò non era dedicata solo al lavoro ed al divertimento, ma era anche un istituto educativo, e non solo per le ragazze, ma anche per i giovanotti. Così per esempio i giovanotti non potevano fumare, se non veniva esplicitamente permesso dagli anziani, in primo luogo dalle donne. I giovanotti che non si comportavano in modo inappuntabile venivano cacciati fuori dagli uomini; ma questo non avveniva quasi mai, perché ciascuno si preoccupava attentamente di non fornirne l’occasione”.
A pag.14 sgg. e pag. 23 sg. (Stanza dei filò): si riferiva anche che i narratori (in ladino cantastories, uguale anche al singolare, in retico filìpes, singolare filìp, filìpa), prima di entrare nella stanza dei filò di un villaggio, dovevano superare una specie di censura da parte di un gruppo di vecchie donne, ossia declamare i loro racconti, in modo che le donne potessero giudicare se il contenuto fosse adatto alle giovani ragazze. I genitori erano straordinariamente suscettibili a questo riguardo. Si riteneva inoltre in generale inaccettabile nominare il nome di Dio, poiché la stanza dei filò valeva come un luogo di divertimento, dove spesso si danzava [la proibizione della danza appare essere stata introdotta solo in tempi molto tardi, presumibilmente durante la Controriforma; prima, in tutte le parti delle Alpi si danzava con vera passione tutte le volte che era possibile, spesso fino al mattino]. In questa raccolta il nome di Dio compare solo una volta (a pag. 488), cioè nella leggenda dell’Aurona, che tuttavia si mostra di uno stampo particolarmente severo (la relazione amorosa fra Somavida ed Odolghes costituisce palesemente un’aggiunta più tarda). In qualunque circostanza era normale far precedere il nome di Dio, se proprio occorreva nominarlo, da un epiteto di abbellimento (p.es. in Gardena “Kel bel Dìe”, in Badia “Kal bel Di” (quel bel Dio).
I cantastories o Filìpes (narratori, bardi) costituivano una categoria a sè, che godeva di un’alta reputazione e presumibilmente discendeva dai sacerdoti pagani (cantori rituali). Anche nelle corti reali vi erano ovunque dei cantori, come presso tutti i popoli indoeuropei. I cantastorie uomini si preoccupavano di presentarsi al loro uditorio con un motto (cantato). Il vecchio Franz Dantone di Gries in val di Fassa conosceva ancora uno di questi motti, che suonava come segue:
De ròba veyes |
(Di vecchie cose |
E de prumes tempes |
E di tempi antichi |
Ay ò aldì |
Io ho udito |
E vò kunté bayèdes! |
E voglio raccontare!) |
Ogni narratore aveva il suo proprio motto e la sua propria maniera di cantarlo. Devono esserci stati numerosi di questi motti. Essi suscitano nei ladini odierni degli scuotimenti del capo, perché sono frammischiati con parole provenienti da diversi dialetti ladini. Così per esempio vèyes (vecchi) si dice solo in Fassa, bayedes (racconti) solo in Marebbe. I cantastories prendevano qualcosa paro paro dappertutto e si appropriavano delle diverse parole. Mentre queste si usavano tutte, essi ambivano ad una “Koinè” ladina, ossia ad una lingua franca valida per tutti i ladini, che tuttavia non ha mai attecchito. Wilhelm Moroder-Zhumbyèrk voleva procedere su questa strada, ma ne venne impedito dalla sua morte prematura.
Le narratrici donne, le Filìpes, non si esibivano mai in pubblico, ma soltanto nel loro circolo familiare. La denominazione, che verosimilmente è veneto-retica, si è conservata in Alpago e lì significa “sposa” (“che parla per la sposa”, mentre una sposa non dovrebbe mai aprir bocca).
In collegamento con le asserzioni del prof. Dr. Adolf Helbok (pag.27), si accenni qui ancora solo ad un’altra osservazione, che Enrico Noe fece per primo sui racconti degli anziani. Essa suona:”Introducono la sapienza degli dei, del cielo e della vocazione trascendentale dell’uomo*).
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Sulla saga del Regno dei Fanes (p.468) si osservi ancora: il vecchio guardiacaccia Franz Kall di Marebbe, che visitai per l’ultima volta nel 1941, si espresse sull’intero ciclo leggendario dei Fanes con le sprezzanti parole: “lè na tjàtjera” (sono chiacchiere); concesse tuttavia di aver sentito ripetere queste “chiacchiere”, senza darsene altro pensiero.
Un altro vecchio marebbano, tuttavia, nel corso dello stesso anno mi raccontò quanto segue: “Kan ke yèra ‘n möt de dòudesh àyn, ài aldì kontén dla zhont plu vödla, kal è stè dan tomp te Fànis, fora dla Lotja, ‘n tjastel, i glò, dizhei, ste ‘l ré dles monts de Marèo” (quando ero un ragazzo di dodici anni, ho sentito raccontare dalle persone più anziane che a suo tempo in Fanis, fuori dalla Locia, vi era un castello dove abitava il re delle montagne di Marebbe). Inoltre: “Te boshk dles luìres dan otànt àyn el sté Martin Terabòna, kò a tjafé na saita de fer, e la zhont dizhès, kal è sté ‘nlo de gran vères da vödlmònter” (nel bosco delle spranghe di ferro circa ottant’anni fa Martin Terabona ha trovato una freccia di ferro, e si dice che lì ai tempi siano state combattute delle guerre feroci”.
*) Cfr. Manfred Mumelter “
La scoperta del Tirolo” (
Schlern, 1, 1920, p.265 sgg.). Il passo cui Mumelter si riferisce si trova nelle “
Ascensioni e luoghi di sosta” di Noe, Monaco 1892, p.46.
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NOTE:
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Sullo stato della tradizione orale ai tempi di Wolff:
- Stranamente, fra gli ambienti in cui si potè conservare la tradizione dei racconti orali, Wolff sembra qui dimenticare il cosiddetto “teatro popolare”, cui dedicò tanta passione. Indubbiamente ai suoi tempi non era comunque più attivo (dalle guerre napoleoniche in avanti, secondo Moroder-Lusemberg). Cfr. anche la mia nota a margine dell’analisi sul lavoro del prof. Poppi a proposito delle raccolte Mazzel e De Giulio.
- Far precedere o seguire un motto personale alle narrazioni, era un uso comune anche in Italia (cfr. p.es. le Fiabe Italiane di Calvino).
- Il nome “filipes” per i cantastorie lo sento per la prima volta. Wolff lo dice “retico”, forse con questo intendendo “ladino arcaico”. O forse risale ad un (ipotetico) antico e famoso cantastorie ladino che si chiamava Filip, da cui tutti i successivi hanno preso il nome? Qualcuno ne sa di più?
- Sulle integrazioni al Regno dei Fanes:
- Il “castello” dei Fanes si sarebbe dunque trovato secondo la tradizione fuori dal passo di Col Locia, non dentro, come avevo sempre creduto! Forse sul cengione noto come Bandiarac? Certamente non al Busc da Stlü, e tanto meno al Ciastel di Fanes, che è in tutt’altro luogo.
- Cosa trovò veramente Martin Terabona, e dove? Se la (punta di) freccia fosse proprio stata di ferro, doveva essere relativamente recente, altrimenti in un bosco si sarebbe corrosa completamente; ma poteva anche essere di bronzo, e dunque antica. Comunque, l’ignoranza delle condizioni esatte del ritrovamento rende impossibile trarne qualunque deduzione.
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