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La saga dei Fanes - Opere specifiche

Cesare Poppi (1987): Le Contìes degli archivi Massimiliano Mazzel e Simon de Giulio. Verifica delle fonti e riscontri nella tradizione orale contemporanea. Mondo Ladino XI, 1-2: 19-57

Nel 1987 il prof. Poppi pubblicò queste considerazioni sullo stato e le strutture delle tradizioni orali in val di Fassa, prendendo lo spunto dalle due raccolte citate, ormai dei relitti di un fenomeno in via di estinzione, Non so se volutamente o no, l’articolo apparve su “Mondo Ladino” proprio in coincidenza con l’annuncio della scomparsa di Simon de Giulio, l’ultimo dei cantastorie. E in effetti il lavoro di Poppi inizia lapidariamente: “La tradizione orale di sequenze narrative proprie della cultura popolare fassana è finita”.
Desideravo da anni pubblicare sul sito almeno un condensato di questo testo, considerandolo molto importante ai fini della comprensione del fenomeno della tradizione orale delle leggende. Sono stato frenato dalla difficoltà di riassumere un testo del prof. Poppi: ogni sua parola è legata ad un concetto, nessun compendio può rendergli veramente giustizia. Mi sono deciso a farlo ora anche perché, avendo finalmente tradotto sia l’introduzione di Wolff alla nona edizione delle Dolomitensagen, sia le sue Integrazioni, che presentano alcuni dati sullo stato delle tradizioni orali ai suoi tempi, posso mettere a raffronto i risultati di Poppi con quelli di ottant’anni prima; e i riscontri presentano, a mio modo di vedere, un discreto interesse (cfr. il commento in fondo).

 

Introduzione

Non vi è più, in val di Fassa, una comunità che trasmetta oralmente da una generazione all’altra gli antichi racconti tradizionali. Non si intende con ciò parlare di oblio dei singoli racconti, ma proprio dell’uso della narrazione orale come mezzo di trasmissione. Questo non è accaduto improvvisamente: è un processo in atto da vari decenni, che ora è soltanto arrivato al suo capolinea.  Le cause sono varie: principalmente, la cultura “dotta” e la quella promossa dal clero si sono estese a tutte le classi sociali, rimuovendo la contrapposizione con la cultura popolare, che era dotata di mezzi espressivi ad essa peculiari. Le profonde trasformazioni socio-politiche e culturali subite dalla valle nel dopoguerra non hanno fatto altro che portare il processo al suo compimento. 

Le condizioni attuali della tradizione orale

Nel 1976 il prof. Poppi compì un primo studio sulla tradizione orale in val di Fassa, osservandone lo stato di profondo degrado. Dieci anni più tardi, il processo è  giunto al compimento. Gli ultimi informatori-chiave, i quali non erano neppure degli specialisti della narrazione, ma solo gli ultimi che ricordavano ancora qualcosa, sono defunti. Non rimangono che spezzoni, “sentito dire”, singoli nomi staccati dal contesto, o nel migliore dei casi alcuni singoli episodi.
La tradizione orale si conservava nelle veglie serali (filò, vila), che erano eventi riservati agli adulti. Anzi, il più delle volte erano interdetti anche alle ragazze. I bambini venivano mandati a dormire, e non sembra ci  fosse neppure l’usanza di raccontar loro delle fiabe. Pertanto, essendosi smarrita l’usanza delle veglie serali, gli attuali anziani non hanno modo di ricordare degli eventi cui non hanno mai preso direttamente parte, né che potevano essere stati raccontati loro dalle madri. L’ultimo a serbare memoria della tradizione sembra sia stato Simon de Giulio, di Penia, scomparso nel 1987.
Molti racconti delle raccolte in esame parlano di magia e di stregoneria. Essi esprimono in forma narrativa alcune credenze diffuse in Fassa ed in alcuni casi ripetono ciò che si può trovare nei verbali di interrogatorio nei processi alle streghe dei secoli passati. Le credenze sono tuttora note (ci si creda o meno), ma quasi mai è ancora conosciuta la struttura del racconto che era stato “costruito” per avvalorare (o forse addirittura produrre?) quel tipo di credenza. E questo è significativo del fatto che la narrazione sia tramontata come mezzo espressivo ancor prima dei contenuti che vi venivano narrati.
Cose simili accadono anche per vivene e bregostene, di cui molti conoscono l’esistenza, ma nessuno sa più raccontare niente, come pure per i personaggi come Soreghina o Albolina, di cui si ricordano solo i nomi, senza neppure saper dire se siano stati prima sentiti attraverso la tradizione orale, o prima letti sui testi di Wolff.
Le ultime tracce della tradizione orale si trovano (o trovavano) nell’estremità superiore della valle, oltre Canazei, in particolare ad Alba e Penia. Qui visse Fernando Iori de Mita, l’ultimo “vero” narratore specialista, morto all’inizio degli anni ’70. Si ricorda che andava nelle case alle veglie serali e raccontava per lo più quello che il suo pubblico desiderava sentire, ossia non più vivane e bregostane, ma storie tratte da testi letterari. Il suo celebrato “Conte di Montecristo”, raccontato in ladino, richiedeva anche una settimana di veglie serali per essere completato.
Si può concludere che la morte della tradizione orale non è sopraggiunta per dimenticanza dei contenuti, ma per il vederli come qualcosa che non valeva più la pena di ricordare, se non addirittura che ci si “rifiutava di ricordare”.

I generi della narrativa orale

Nelle raccolte in esame, le fiabe propriamente dette (quelle strutturate secondo le sequenze individuate da Propp) sono un genere del tutto minoritario, o perché siano andate dimenticate più in fretta, o perché lo siano state da sempre. In effetti, in Fassa predomina la storia-testimonianza (contìa), che ingloba in se qualche struttura della favola, ma anche qualcosa della narrazione storica. A differenza della fiaba, la contìa è sempre riferita, tuttavia, non ad un “paese lontano”, ma ad una situazione geografica e storica che l’uditore ben conosce, e quindi che lo coinvolge emotivamente molto di più.
Tra le contìe, un ruolo particolare hanno i racconti di bregostenes, sempre riferiti a tempi passati ma con l’andamento lineare di episodi storicamente accaduti, ed a persone precisamente individuate.
La stessa cosa vale per i racconti di magia/stregoneria, che costituiscono la maggioranza delle due raccolte. Episodi attribuiti alle streghe “storiche” vengono inseriti nel contesto dei racconti, che divengono così quasi una testimonianza delle veridicità delle superstizioni cui si riferiscono. Cose simili si possono dire anche al riguardo di altre credenze sul soprannaturale, per esempio circa la “processione dei morti”. Il “creduto” ed il “narrato” rimangono dunque in una stretta relazione e fungono da supporto l’uno all’altro.
Le patofies, anch’esse presenti in gran numero nelle raccolte, sono un genere di narrativa umoristica, relative in genere a personaggi ben individuati e storicamente vissuti, che si comportano comicamente, ora da stupidi ora da furbi. Sembra che le patofies facciano parte del patrimonio di racconti di un singolo narratore, e anche quando vengono ri-raccontate ci si riferisce sempre tanto al protagonista, quanto al primo cantastorie che le aveva raccolte. Solo quando la memoria storica dei protagonisti comincia a sbiadire, le patofies finiscono per assumere il carattere meno determinato della contìa.
Vi sono poi le falopes, narrazioni il cui nucleo contiene una chiara ed evidente bugia, raccontata allo scopo di stupire l’uditorio. Ma falopa è anche il giudizio che un uditorio scettico attribuisce ad un racconto ritenuto poco credibile: capita così a molti racconti di magia/stregoneria, ormai considerati delle panzane.
Infine, le leggende eziologiche, ossia quelle che utilizzano il mito per dare la “spiegazione” di un fenomeno naturale. Alcune provengono certamente da una lunga tradizione orale; anzi, molte che sappiamo esser state vive all’inizio del ‘900 sembrano essere andate completamente perdute. Altre invece denunciano chiaramente un’origine più recente, e di essere state “inventate” a scopi palesemente letterari.

 

Le raccolte Mazzel e Simon de Giulio

- Gli informatori, le fonti

Simon de Giulio ha indicato egli stesso chi siano le sue fonti, in modo del tutto attendibile. La maggior parte provengono dalla sua stessa famiglia, quasi tutte le altre da compaesani di Penia. Solo alcune si riferiscono ad una “tradizione diffusa”, che tutti o quasi conoscevano in paese. Simon de Giulio è stato forse l’unico ad esporre i suoi racconti in forma scritta conservando la forma e lo stile di una narrazione orale.
Don Massimiliano Mazzel presenta un problema più complesso perché, nella lettura delle sue storie alla radio di Bolzano in lingua ladina, si prefiggeva scopi non soltanto culturali ma anche moralistici, e pertanto aggiungeva commenti che non avevano nulla a che vedere con la tradizione orale. E’ probabile invece che non abbia effettuato troppi interventi sui contenuti delle sue storie, mentre è quasi certo che abbia filtrato solo quelle più rispondenti ai suoi fini. Molte leggende di tipo eziologico sono state poi quasi certamente inventate, con gusto romanticheggiante, da lui o dai suoi diretti informatori; solo di alcuni fra questi conosciamo anche il nome. Lo stile è intermedio tra la forma “letteraria” e quello della tradizione orale vera e propria; i contenuti sono tali che “potrebbero essere” derivati dalla tradizione orale, anche quando è invece certo che si tratta di invenzioni dei singoli autori.

- Diffusione areale di temi e motivi

Non è facile individuare la località di provenienza dei singoli temi e motivi delle raccolte. Solo alcuni sono di conoscenza diffusa in tutta la valle, e probabilmente sono quelli più antichi, come quelli sulle bregostène. Si può certamente dire che gran parte delle storie provengono dalla parte superiore della valle, Canazei, Alba e Penia; discutibile se ciò dipenda dal fatto che gli informatori erano stati scelti nell’alta valle, o che solo nell’alta valle si potevano ancora trovare degli informatori. In genere sembra che la circolazione delle narrazioni fosse molto ristretta, e la loro eventuale diffusione molto lenta.


- Il problema dell’autenticità

Per autenticità si intende la derivazione diretta di un racconto dal circuito della tradizione orale. Alcune narrazioni delle due raccolte sono la rielaborazione scritta di credenze diffuse, spesso composte dall’estensore, che vi ha costruito sopra una “sua” storia, in modo più o meno avvertibile a seconda dei casi.
Per molte leggende il giudizio sull’autenticità deve restare sospeso, perché sono costruite su frammenti di ricordi e su dei “sentito dire”, e che potrebbero anche risalire alla lettura dell’opera letteraria di K.F.Wolff. Si noti, al proposito, che Simon de Giulio tendeva a negare l’autenticità delle redazioni di Wolff.

 

Appendici:

Le appendici includono:

  • Indice archivio Simon de Giulio: 72 racconti, citati col titolo e la fonte.
  • Indice archivio Mazzel: 98 racconti, anch’essi citati col titolo e la fonte (dove conosciuta), tratte dall’archivio radiofonico o da pubblicazioni.
  • Suddivisione delle raccolte Simon de Giulio e Massimiliano Mazzel per genere narrativo; ne risultano i seguenti numeri (alcuni racconti non inquadrabili restano esclusi):

Genere

Simon de Giulio

Don Massimiliano Mazzel

Fiaba

1

5

Contìa

19

24

Magia-stregoneria

14

15

Leggenda eziologica

12

13

Patofia o aneddoto storico

22

26

  • Note biografiche sui principali informatori/collaboratori alle raccolte: Giovanni Giacomo Iori (“Zot de Rola”) di Penia, 1896-1972; Giovanni Battista Costa (“Tita de Megna”) di Canazei, 1884-1968; Ferdinando Iori (“Ferdinando de Mita”) di Penia, 1909-1971.

 

Commento: la situazione descritta dal prof. Poppi paragonata a quella descritta da Wolff nelle “Introduzioni” e nelle “Integrazioni” alle Dolomitensagen

La cosa più curiosa è che tanto Poppi nel 1987, quanto Wolff circa ottant’anni prima, esordiscono affermando che la tradizione orale delle leggende ha smesso di esistere. Si tratta dunque di una Fenice, che risorge dalle proprie ceneri? Andando solo un po’ più a fondo, si scopre che in realtà si intendono due cose sensibilmente diverse: Wolff si riferisce a quelle leggende poetiche, indubbiamente spesso molto antiche, dai cui residui brandelli egli costruì (ricostruì?) il corpo della sua opera, Poppi invece al concetto stesso del ri-raccontare come mezzo per tramandare ai posteri le tradizioni che erano state apprese dalle generazioni precedenti. Poppi, che riporta non solo l’analisi delle due raccolte citate nel titolo, ma anche i risultati delle sue proprie osservazioni, limita al solo “filò” (la veglia serale costruita attorno all’atto del filare, ma durante la quale venivano sbrigati anche molti altri lavori domestici o agricoli) l’occasione in cui si poteva dar corso a questo processo. Wolff segnala anche il diverso ambiente delle serate agli alpeggi, la cui atmosfera risultava spesso molto più cruda, in quanto erano dominate dalla presenza degli uomini anziché da quella delle donne. Va aggiunto poi, come terzo possibile ambiente di narrazione delle antiche leggende, quel “teatro popolare” (che fu un chiodo fisso di Wolff), la cui esistenza ed importanza gli era stata suggerita da Cassan e Moroder-Lusemberg. Secondo quest’ultimo, sembra che questa forma tradizionale si fosse estinta già con l’inizio delle guerre napoleoniche nelle Dolomiti. Potrebbe quindi essere che le leggende molto poetiche, che Wolff dopo un secolo trovò ormai disperse in frammenti isolati e semidimenticati, e che secondo Poppi altri ottant’anni più tardi gli stessi ultimi cantastorie fassani dubitavano fossero mai veramente esistite, risalissero proprio al teatro popolare e non fossero mai riuscite ad essere compiutamente raccolte dall’ambiente dei filò.
Per un paragone completo tra le due descrizioni, sarebbe in ogni modo interessante sapere se nel 1985 Poppi non riscontrò l’ambiente “di malga” segnalato da Wolff perché questo non esisteva più, o semplicemente perché, essendo esso del tutto estraneo alle due raccolte considerate, egli non ebbe modo di approcciarlo personalmente.
Si può osservare inoltre che Poppi prende in considerazione la sola val di Fassa, mentre Wolff operò in tutte le Dolomiti; ma anch’egli conosceva particolarmente bene proprio la val di Fassa, e in ogni modo non sembra che le differenze tra le varie valli possano essere state particolarmente eclatanti. I processi sociologici in atto devono aver avuto un andamento non uniformemente sincrono, ma sostanziamente essere rimasti i medesimi dappertutto.

Per dir la verità, esiste anche una più recente raccolta di tradizioni popolari ladine. Essa è basata sull’indagine svolta all’inizio di questo millennio dal Dr. Andrea Zinnecker e da Wolfgang Karreth per conto della Bayerischer Rundfunk di Monaco di Baviera, che ne mandò in onda i risultati col titolo “Zakan… wer weiß, wann?”  [Una volta, chissà quando] e che, per la cortesia degli Autori e coi buoni uffici della gentilissima signora Tarabiono, è disponibile in questo sito. E’ particolarmente interessante il fatto che si tratta della registrazione di leggende raccontate oralmente (parte in tedesco e parte in ladino), e non scritte o trascritte. Purtroppo questa raccolta non è ancora stata oggetto di un’analisi approfondita; conto di impegnarmi a darne almeno una prima scrematura, pur con le mie note difficoltà di lingua. Tuttavia il fatto che dopo il 2000 sia stato ancora rintracciato del materiale, in parte anche originale, lascerebbe credere che la tradizione orale nelle Dolomiti, pur certamente in gravissima crisi, non sia (finchè dura…) proprio morta del tutto.

Un secondo spunto interessante nel paragone tra le osservazioni di Wolff e quelle di Poppi è dato dalla diversa impostazione riscontrata ad ottant’anni di distanza nella partecipazione femminile ai filò. Mentre Poppi infatti vent’anni or sono rilevava che alle giovani ragazze era semplicemente precluso di assistervi, questo ai tempi di Wolff non avveniva affatto; tuttavia le donne anziane mettevano in atto una sorta di “censura preventiva” per accertarsi che il contenuto delle storie da raccontare non presentasse elementi considerati inadatti. L’accenno di Wolff al filò come luogo tradizionalmente deputato al divertimento ed alle danze, almeno prima della controriforma, lascia pensare che le restrizioni moraleggianti siano iniziate in quell’epoca e siano diventate progressivamente sempre più diffuse e severe.

Potrebbe infine essere interessante fare un paragone tra i “generi” dei racconti nella raccolta di Wolff ed in quelle esaminate da Poppi, ma purtroppo avrebbe poco senso. Wolff infatti, per sua dichiarata ammissione, fu molto selettivo ed eliminò tutto quello che, per motivi disparati, non ritenne adatto al suo lavoro di poeta delle tradizioni - dichiarando candidamente di non essersi mai reso conto del valore etnografico che i suoi “scarti” avrebbero potuto assumere!