LE ULTIME PREFAZIONI DI WOLFF ALLE DOLOMITENSAGEN
Le ultime prefazioni scritte da Wolff per le sue Dolomitensagen e che compaiono nell'ultima (16^ edizione)sono quelle alla IX (1956) ed alla XI-XII edizione (1966), quest’ultima assai breve e non molto rilevante.
Nella prefazione alla IX edizione è contenuto invece del materiale di un certo interesse, in primo luogo per quanto riguarda l’incompletezza della sua raccolta. Wolff ammette infatti di non aver affatto utilizzato l’intero materiale in suo possesso, rinunciando per esempio ad utilizzare tutto quanto riguardava l’orco e le streghe, ma anche di non essersi neppure preoccupato di raccogliere quel che gli sembrava troppo crudo o grossolano, senza rendersi conto del valore etnografico che avrebbe potuto assumere.
Wolff distingue in proposito tra le leggende tramandate nell’ambiente dei filò, da cui trasse ampi spunti, e quelle meno poetiche raccontate negli alpeggi, dove mancava la presenza dell’elemento femminile.
Egli si dilunga poi nel raccontare dell’accoglienza ricevuta dalle sue opere, sottolineando lo scarso favore con cui lo accolsero gli studiosi del folklore, mentre ottenne un consenso molto più caldo dal grande pubblico, cui si aggiunsero col tempo anche diversi artisti e letterati.
PREFAZIONE ALLA NONA EDIZIONE
“Le componenti delle leggende alpine che si sono conservate possono rivivere attraverso la poesia e ridiventare oggetto di folklore in circoli più ampi”.
(Max Haushofer, “Paesaggio e leggende alpine dei monti bavaresi”, Bamberg 1890, p.7)
Mi è stato fatto osservare più volte con biasimo che nella mia raccolta mancano dei tipi, per esempio non vi compare affatto il mostro chiamato Orco, sebbene i vecchi ladini ne avessero raccontato molte cose. Questo non posso contestarlo; ma nelle mie annotazioni ce ne sono alcune che non ho utilizzato, poiché aspettavo di poterle collocare in complesso più vasto. Così mi è parso anche di dover limitare le storie sulle streghe, nelle quali mi sono imbattuto centinaia di volte, perchè era necessario dare un fondamento alla trattazione a tale riguardo.
Diversi critici mi hanno rimproverato che nella mia elaborazione è andata perduta “l’impronta folkloristica” degli antichi racconti, avendoli io spogliati di ogni crudezza, acconciati in modo cortese ed arbitrariamente addobbati con concetti favolistici estranei al territorio (p.es. con i nani). Queste tre rampogne sono ingiuste. Prima di tutto occorre distinguere tra il filò e l’alpeggio delle pecore. Nel filò, dove dominano le donne, le crudezze non sono tollerate; qui si raccontano storie d’amore cortesi ed elegiache. I concetti cortesi sono apparentemente diffusi da un luogo all’altro dai cantastorie (Cantastories). Ancora oggi il popolo delle Alpi lombarde racconta con grande partecipazione delle due regine Rosamunda e Teodolinda, e similmente accadeva nelle Dolomiti. I racconti scabrosi si trovano naturalmente dappertutto; tuttavia originariamente erano tollerati solo negli alpeggi delle pecore, dove si ritrovavano malgari, cacciatori e boscaioli e vi erano soltanto uomini, poiché negli alpeggi delle pecore non vi sono malgare. L’atmosfera ed i concetti qui sono un mondo a parte, completamente diversi da quelli dei filò. Nella mia raccolta domina quell’atmosfera che era consueta nei filò, e nessuno vorrà affermare che questa non costituisca un’atmosfera propria del popolo. Proprio nel filò si preservavano le leggende, e con la decadenza del filò sono scomparse anche le forme più antiche e nobili dell’arte popolare del racconto.*) Per quanto riguarda i nani, infine, i Ladini hanno tre parole per descrivere un nano: tàrter, mòrkye e guryùt; dunque questo concetto avrà ben giocato un ruolo.
Ai racconti che ho ritenuto scabrosi, fortemente deformati o senza senso, a suo tempo ho curato di non badare affatto; non ero per nulla consapevole che potessero essere importanti etnologicamente. D’altronde non ho mai avanzato alcuna pretesa di completezza nella redazione e compilazione della mia raccolta. Così i manoscritti lasciati dal mio scomparso amico Hugo von Rossi, il miglior conoscitore della val di Fassa, contenevano numerosi dettagli che non ho utilizzato se non in minima parte. (I manoscritti, purtroppo, sono stati distrutti nei bombardamenti aerei). Ammetto volentieri che per una corretta ricerca sul folklore il lavoro di Rossi era più valido del mio. E come von Rossi per la val di Fassa, così dal canto suo Runggaldier offre del materiale eccellente sulla val Gardena**).
Per l’area friulana ho utilizzato un’altra raccolta, quella che il giovane ricercatore Carlo Scarsini, di Udine, aveva messo insieme e di cui mi aveva sottoposto il manoscritto; nella sua Introduzione egli afferma che una profonda malinconia, delicatezza ed una grande austerità sono caratteristiche della poesia popolare friulana. L’uomo del Friuli ci manifesta dunque le stesse attitudini spirituali di quello delle Dolomiti, e ritornano i medesimi concetti informativi delle leggende e delle favole. Anche in questo si percepisce l’unitarietà dell’intera regione, dalle alte vette delle Dolomiti fassane fino alle lagune costiere.
Tutto quello per cui ho lottato non era tuttavia la completezza, bensì la messa in evidenza di quei particolari stati d’animo che si ritrovano soltanto negli antichi racconti dei ladini dolomitici, poichè corrispondentemente solo qui sussistevano i presupposti per la loro nascita. E questo per diverse ragioni; infatti, se la lingua ladina, che una volta era dominante in una regione assai ampia, oggi è limitata ai recessi più reconditi delle montagne alpine, non ci deve meravigliare che gli uomini che parlano questa lingua portino in sé una sorta di preoccupazione, ossia che la loro lingua possa sparire, ed è comprensibile che questo, sotto alcuni punti di vista, abbia degli influssi sulla loro vita spirituale. Una compagine linguistica spezzettata in comunità ristrette abita le Dolomiti, ossia un paesaggio la cui splendida bellezza è magnificata nelle lingue di tutte le culture.
Così si può riconoscere l’azione a livello psicologico di due concetti, uno opprimente ed uno sollevante: da un lato gli uomini delle Dolomiti vedono in pericolo la loro lingua ed il loro essere un popolo, dall’altro percepiscono che la loro patria è una delle più belle su questa terra. Entrambi questi stati d’animo, che non si ritrovano assieme in nessun altro luogo, hanno prodotto un’associazione di sentimenti che ha influenzato la vita emotiva in modo tranquillo ma costante. Si potrebbe definire questa gente che abita le Dolomiti il popolo della bellezza dolorosa, poiché nelle loro sensazioni e nei loro pensieri torna sempre quell’associazione di sentimenti. Anche dei Ladini carnici i loro migliori conoscitori dicono che una “interna tristezza” domina le loro canzoni e tutto il loro folklore.°) Questa non è tuttavia per nulla facile da far affiorare e riecheggiare, poiché la gente non ne parla, in quanto essa vive solo, per così dire, nel loro subconscio. Cionondimeno, era sempre quella l’associazione di sentimenti che ho sentito sommessamente nei più antichi racconti degli abitanti delle Dolomiti, e mi sembra della massima importanza riportarne l’espressione nel ricostruire le loro tradizioni in rovina.
Si osservi il seguente esempio: “Il conte angioletto” (el conte andjulìn) è il nome di una vecchia ballata che era diffusa dalla val di Fassa fino alle Alpi Carniche e Giulie, che tuttavia nel corso dei secoli è rimasta tanto svisata che non ho voluto inserirla nella raccolta. Babudri la ritrovò in Istria e presenta la sua trama come segue. Un conte è caduto in battaglia, e sua madre, che ne è venuta a conoscenza, lo nasconde alla nuora mentre lei è nel puerperio. (Già questa è una deformazione. Presso i “carnyelis”, gli abitanti delle Alpi Carniche, si afferma che la vecchia castellana abbia dissimulato la sua pena ed abbia taciuto poiché la giovane donna era incinta, e la nonna temeva che suo nipote potesse averne un danno, se la madre avesse dovuto soffrire per la tremenda notizia). Poiché dunque il conte non tornava a casa, la castellana disse che nel suo paese non era consuetudine che lo sposo visitasse la puerpera. Tuttavia non appena questa si fu completamente ristabilita, la suocera le consigliò di indossare un abito nero, poiché era quello che le donava di più. Pertanto la contessina comprese cosa fosse accaduto e ne morì di dolore. Prima di ciò essa fece un’oscura allusione, che il suo bambino sarebbe stato un anello d’argento “sarà ‘l mio fantulin con noi l’anelo, l’anelo de la morte, anel d’arzento” (il mio fantolino sarà il nostro anello, anello della morte, anello d’argento). Da questo cupa allusione si desume che al bambino era ancora destinato un ruolo importante negli ulteriori sviluppi della trama, in ogni caso nella sfera metafisica, e poiché questo più tardi non venne più compreso, venne lasciato da parte. Nonostante questa spiacevole mutilazione, per cui non ho trovato da nessuna parte una possibilità di completamento, la ballata conserva l’impronta di una storia da filò (cfr. Francesco Babudri, “Fonti vive dei Veneto-Giuliani”, Trevisini, Milano, p.174).
E’ incontestabile che una pura attività collezionistica non sarebbe mai stata sufficiente a permettere di riportare tutta la bellezza degli antichi racconti, poichè questo lavoro richiede anche del sentimento, dunque amore per le belle lettere. Ed esso poteva essere compiuto soltanto se l’estensore avesse saputo vedere ed utilizzare tutto ciò che era disponibile, allo stesso tempo conservandosi tuttavia una libertà spirituale sufficiente a cogliere con orecchie attente anche l’inespresso ed il dimenticato, senza mai andar contro lo spirito popolare. Il primo che mi insegnò questi concetti, sulla cui base ho esteso il mio materiale, fu il fondatore della ricerca sul folklore tirolese, il capo bibliotecario dottor Ludwig von Hörmann, che mi disse che la leggenda ha un’evoluzione ed una sua storia vissuta, poiché consiste di un fascio slegato di concetti mitici o magici, che si mescola coi ricordi di fatti effettivamente avvenuti, ed infine potrebbe costituire il fondamento di un umano destino. La creazione che ne risulta non viene tuttavia compiuta dall’ampia collettività dei narratori, bensì da un singolo poeta. Con questo la leggenda raggiunge l’apice del suo sviluppo e con un processo ciclico potrebbe condurre all’epica popolare. Ma sarebbero possibili anche delle epoche di decadenza o dei nuovi progressi. Durante l’epoca della Riforma e specialmente nel 19° secolo, la vitalità creativa delle leggende e l’arte del racconto popolare si sono quasi completamente dissolti per disparati motivi, tanto che i nostri lavori classici sulle leggende offrono solo ruderi e macerie.
Nell’anno 1909, questi ammaestramenti ricevuti da Ludwig von Hörmann, cui le mie intenzioni personali si conformarono scrupolosamente, costituirono per me il punto di partenza da cui procedere nel cammino intrapreso, allo scopo di rivelare dove possibile, dalle macerie e dai ruderi che ancora sussistevano, le forme complete dell’antico corpo delle leggende negli stadi più elevati del suo sviluppo e ricostruire a nuovo il tutto, in quell’atmosfera narrativa che ancora si poteva rilevare nei racconti degli anziani, specialmente dalle donne ladine. Questo ho cercato di fare da allora. Nel 1913 apparve il primo volumetto, nel 1925 il secondo, nel 1929 il terzo e nel 1941 il quarto. Alcuni racconti rimasero indietro, perché mi sembravano oscuri e non volevo ancora avventurarmi nella loro elaborazione, tali “L’ultima Delibana” ed il “Cavaliere dei colchici”. Ludwig von Hörmann aveva peraltro qualificato la “Delibana” come la più ricca di contenuti e la più valida di tutte, sebbene fossi in condizione di trasmettergliene le parti più importanti solo a grandi linee.
I lettori hanno sempre accolto amichevolmente le mie “Dolomitensagen”, e non certo solo in Tirolo, ma anche in paesi stranieri. Per contro, sono stato stroncato a lungo recisamente dalla critica. Tuttavia si sono sempre trovati dei singoli eruditi che mi esortavano a proseguire sul mio cammino. Con particolare gratitudine ricordo un consigliere di scuola superiore di Monaco, il dr. Wilhelm Rohmeder, che, in quanto amico fervente del Tirolo e della gente delle Dolomiti, mi consigliò reiteratamente di restare imperturbabile ed elaborare e pubblicare tutto il materiale a me noto con le modalità utilizzate fino ad allora. Infine, dal 1949, si misero dalla mia parte anche dei ricercatori del ramo, come il professore universitario dr. Adolf Helbok, che (sullo “Schlern”, annata 1949, p.275 sg.) scrisse:“Per decenni Wolff ha rintracciato il materiale leggendario del Tirolo con incredibile tenacia ed il suo è diventato, al di là del suo lavoro su altre zone circostanti, l’archetipo specifico del ricercatore di leggende. Chi conosce le “Dolomitensagen”, e in dettaglio la triplice rielaborazione del “Re Laurino”, ha acquisito da tempo l’immagine di un ricercatore, che nel giudizio di una stretta cerchia è scadente, e si fa strada in circoli scientifici sempre più ampi… Wolff oggi ritiene a buon diritto di non privilegiare nelle raccolte di leggende la brevità e la concisione, egli riporta il materiale con epica ampiezza ed è convinto che i racconti degli antichi popoli alpini fossero lunghi, e ci mostra come il destino umano sia sempre legato alle circostanze ambientali, e come da ciò derivi non un superficiale divertimento favolistico, ma un’esperienza spirituale dalle basi profonde. Così egli ci avvicina anche agli antichi uomini del mito.”
Un anno più tardi, lo storico dell’arte tirolese Monsignor dr. Josef Weingartner si espresse come segue:“Karl Felix Wolff ha raccolto le leggende delle valli dolomitiche e con questo ha cercato di rimettere assieme i frammenti degli antichi racconti e canzoni, in modo che assumano un significato. Anche se egli è andato abbastanza avanti in questo processo, e spesso non si può dire con certezza dove sia l’esatto confine fra il vero corpo leggendario e la sua integrazione immedesimata, ma sempre poetica ed affettuosa, ad ogni modo si riconosce chiaramente che queste delicate creazioni sono sbocciate dal paesaggio, dal grandioso e romantico mondo di montagna delle Dolomiti, e che dunque i ladini già nel tempo antico hanno avuto una profonda consapevolezza della speciale bellezza della loro patria (Josef Weingartner, “Südtirol”, Vienna, Adolf Holzhausen, 1950, p.78).
E taglia corto lo storico della letteratura dr. Anton Dörrer, professore all’università di Innsbruck, in una relazione riassuntiva sulle leggende e la letteratura leggendaria del Sudtirolo, dove i miei scritti in proposito sono definiti nel modo seguente: Lo scrittore bolzanino Kark Felix Wolff, “lo ringraziamo per le fruttuosissime versioni ed edizioni delle Dolomitensagen, che nel frattempo sono state tradotte in diverse lingue straniere ed hanno portato il Sudtirolo e la Ladinia su molte bocche. Già Alton abbellì ed integrò la sua piccola raccolta, allo stesso modo Wolff cercò di ripristinare, dai residui faticosamente riassemblati, un solido complesso nello spirito degli antichi abitanti delle Dolomiti. Con ciò Wolff ha riportato alla luce soprattutto il “Rosengarten” col re Laurino nel suo affascinante mondo poetico, pressappoco come un restauratore di quadri dotato di senso artistico fa riemergere come per magia un antico affresco, di cui non si possono più rintracciare che tracce sparse, e lo completa arricchendone la posterità. Come tuttavia i restauratori incontrano le osservazioni critiche dei contemporanei e dei posteri, così anche gli sforzi di Wolff non hanno trovato dappertutto un pieno riconoscimento. Gli speciali meriti di Wolff per la poesia popolare sudtirolese meritano di essere sottolineati.” (Apparso sul n.180 del giornale di Bolzano “Dolomiten” del 6 agosto 1952).
Ringrazio i tre specialisti per questi pubblici apprezzamenti del mio modo di lavorare. La concordanza di base che si ritrova nelle dichiarazioni qui riportate è tanto più degna di nota in quanto i tre esperti si sono espressi in modo del tutto indipendente e separatamente l’uno dall’altro.
Dopo questa digressione, che dovrebbe aver fornito al lettore un’idea sulla storia della nascita e sulle sorti del lavoro, ritorno ancora una volta indietro a ciò che ho spiegato già nel 1913, ossia che i racconti sono stati rielaborati da me. Nella mia raccolta mancano alcune cose, e l’esperto lo rileva; tuttavia compaiono anche alcune cose che gli suonano strane. A ciò contribuiscono la ricostruzione delle lacune ed il recupero di quell’atmosfera spirituale di cui soprattutto gli abitanti stessi delle Dolomiti non parlano mai. Solo un autore che dall’infanzia abbia registrato in se stesso una tale sensazione, che abbia visto e vissuto di continuo sul territorio e con la gente, potrebbe spingersi a questo. Che il compito fosse pesante e difficile, lo so bene, poiché non ha coinvolto soltanto un dato modo di lavorare, ma innanzi tutto le mie personali attitudini; quanto bene ci sia riuscito, potrà essere valutato retrospettivamente in futuro.
Una profonda malinconia si spande sull’antico popolo dei Ladini, come un sommesso suono di campane nella sera, e si ricollega meravigliosamente al luminoso splendore del paesaggio dolomitico; - forse il lettore ne ritroverà qualcosa anche in queste pagine!
Nota finale
Negli ultimi tempi sembra delinearsi una svolta in favore dei popoli dolomitici. La Svizzera ha riconosciuto il Reto-romancio come quarta lingua nazionale e con ciò i Reto-romanci sono stati riportati alla consapevolezza di costituire un popolo. Tra i Reto-romanci della Svizzera e quelli delle valli dolomitiche sono stati riallacciati i rapporti. A Bressanone sull’Isarco, sotto la guida del professor dr. Sylvester Erlacher si pubblica il quindicinale ladino “Nos Ladins”, e in val Badia nel corso dell’estate 1951 è stato nuovamente rappresentato con grande sfarzo l’antico festival del “Regno dei Fanes”. I gardenesi pubblicano ogni anno un calendario ladino con bei contributi alla conoscenza della zona. Anche in val di Fassa si ha un rimescolio: lì gli scrittori locali Guido Jori e Gianfranco Valentini combattono per i diritti del loro popolo. Questi sono segnali incoraggianti per il futuro.
Mentre ora do alle stampe il mio lavoro corredato dalle ultime integrazioni, ringrazio il mio vecchio editore, signor Alfredo Dissertori, direttore della casa editrice Auer-Ferrari di Bolzano, che ha pubblicato sei edizioni, benchè dal 1945 per vari motivi abbia dovuto astenersi da un’ulteriore ristampa. Ringrazio anche i miei fedeli lettori, in particolare il sig. dr. Hermann Mitterer, che mi si è sempre dimostrato entusiasta ed ha fatto molto per me. Del pari ringrazio la signorina Irmin Steiger di Innsbruck, che si è occupata con pazienza ed oculatezza di correggere le bozze.
La casa editrice “Tyrolia” di Innsbruck, presso la quale le mie “Dolomitensagen” appaiono ora nuovamente, ne fa stampare due diverse edizioni: dapprima un’antologia per i giovani con la abilissima collaborazione della signora Auguste Lechner e poi l’opera completa nella redazione da me compilata, cosa per cui mi sento molto obbligato nei confronti della suddetta Casa editrice. Ho dovuto peraltro rinunciare nuovamente ai caratteri gotici, che prediligo, perché sono molto più belli, mentre non riesco a capire per qual ragione dovremmo condannare e dimenticare i nostri caratteri, portati a forma stabile da Albrecht Dürer. I caratteri gotici sono particolarmente meritori perché ad una lettura prolungata affaticano gli occhi meno di quelli latini con le loro rotondità sempre uguali, che non offrono agli occhi alcun punto d’appoggio. Infine sono benefici perché con l’impiego dei caratteri gotici le parole delle citazioni in lingue straniere (che naturalmente devono essere composte con caratteri Antiqua) risaltano chiaramente visibili.
Innsbruck, estate 1956
Karl Felix Wolff
All’undicesima e dodicesima edizione
La presente (undicesima) edizione di quest’opera è ampliata da un secondo excursus che concerne il lago di Garda. Nel 1904, da giovanotto, ho passato molto tempo sul lago di Garda ed ho vagabondato sui monti circostanti, dove ho raccolto molto materiale folkloristico. Era mia intenzione di ricavarne un libro interamente dedicato al lago di Garda. Tuttavia in tutti questi anni non ci sono riuscito, e dopo la comparsa dello splendido lavoro di Zinner & Riedl ho abbandonato il progetto. Ora ho rivisto il mio materiale sul Garda e ne ho composto un compendio in sei sezioni, che è incorporato nella presente opera. I racconti mostrano una certa parentela con quelli dei ladini dolomitici, e non si può dubitare che sussista un’ancestrale rapporto di affinità degli strati etnici più profondi. Lo stesso vale per l’excursus sulla stretta di Verona. Soprattutto, in quest’ampia zona si ritrova anche il motivo dei “Monti Pallidi”, ossia le stesse rocce dai colori chiari e cangianti ed il loro caratteristico paesaggio.
Si prega di leggere anche le “Integrazioni” in connessione con queste “Prefazioni” ed “Introduzioni”.
Bolzano, estate 1966
Karl Felix Wolff
*) Cfr. “
Schlern” 1954, p.76, e le „Integrazioni“ a questo lavoro.
**) Leo Runggaldier de Ferdenan, “Stories i cianties per kei de Gerdeina” [Storie e racconti per i Gardenesi], Innsbruck 1921 (anche “Der Tiroler”, Bolzano, 4.3.1922.)
°) Così in Lea d’Orlandi – Gaetano Perusini, “Antichi costumi friulani” sulla rivista “Ce fastu?” della “Società filologica friulana”, Udine 1941, p.33.