La
saga dei Fanes - L'evoluzione della leggenda
Applicando
i criteri proposti in >studi >metodo,
e proponendo (pur senza averne l'assoluta certezza) come ipotesi
di lavoro che alla radice della saga dei Fanes vi sia davvero
una vicenda storica realmente avvenuta, il nucleo su cui la
leggenda venne a costituirsi potè essere certamente fornito
solo dalle testimonianze dei pochi Fanes che scamparono alla
strage. Anche se la regina fosse stata tra questi, è
chiaro che non contribuì al racconto fornendo i numerosi
particolari riservati o addirittura privati di cui doveva essere
a conoscenza, soprattutto al riguardo degli ultimi giorni del
regno, i cui avvenimenti rimangono quindi alquanto ipotetici.
E’ peraltro assai probabile (come del resto affermato
dalla leggenda stessa) che pochi o nessuno degli uomini in grado
di portare le armi sia sopravvissuto, e che quindi il racconto
sia stato compilato da persone che la pensavano sostanzialmente
come la regina, ossia “da marmotta”. Anche per questo
motivo, tutta la storia venne narrata stendendo ampi veli sul
significato reale della “gloria” acquisita dagli
“avvoltoi”. E’ poi fin troppo naturale che
si sia fatto il possibile per mettere in ogni modo il popolo
dei Fanes nella luce migliore e per gettare tutte le colpe e
tutto il discredito sul re straniero, falso e traditore, unico
responsabile della tragedia. La fine di quest’ultimo doveva
essere effettivamente rimasta un segreto noto a pochissimi,
e tutti ormai già morti; è evidente che già
i primi narratori faticavano non solo ad inquadrare cosa gli
fosse veramente accaduto, ma anche le circostanze di quel “consiglio
della corona”(?) nel corso del quale doveva essersi deciso
il suo destino. (E’ peraltro sicuro che qualcosa del genere
debba esserci stato, e che qualche indiscrezione su di esso
debba essere trapelata, altrimenti non avremmo oggi la doppia
variante del tradimento per amore e del tradimento per avidità
delle ricchezze dell’Aurona:
entrambe versioni assai distorte, ma che dovevano risalire a
qualche “sentito dire” su accuse effettivamente
pronunciate nel corso di un acceso dibattito molto segreto).
E’ probabile che la storia venisse integrata con dei contributi
portati da persone che avevano raccolto informazioni anche nel
campo nemico; altrimenti non sapremmo nulla o quasi del mancato
incontro fra Ey-de-Net e Dolasilla, né della Tsicuta,
o delle manovre diplomatiche di Spina-de-Mul. Già dopo
le prime generazioni, poi, si può pensare che la narrazione,
da un racconto inizialmente limitato ai soli ultimi giorni del
regno, si sia estesa a ritroso fino alle nozze dell’ultima
coppia regale, e che con ciò sia iniziato il processo
di appiattimento storico dei processi socio-culturali, condensandoli
in vicende individuali simboliche.
Si può infine ritenere che i miti come quello di Moltina,
quello dell’Aurona,
quello a sfondo iniziatico di Spina-de-Mul,
dei figli del Sole
e di Merisana,
dovessero essere a quei tempi indipendentemente già ben
formati e conosciuti, anche se non doveva esservi alcuna ragione
per narrarli in funzione od in connessione col racconto della
fine del regno dei Fanes.
Il
primo trapasso culturale che la leggenda dovette subire fu indubbiamente
quello in dipendenza dalla fusione degli ultimi discendenti
dei Fanes con i coloni Reti: fatto che non può non essere
avvenuto, altrimenti non ci sarebbe stato nessuno a tramandare
la storia fino ai nostri giorni. E’ probabile che ciò
avvenisse non oltre il primo secolo o due dalla fine del regno,
a causa del peggioramento climatico che si stava verificando.
Si può ragionevolmente ritenere che gli ultimi Fanes
si siano mescolati con i Reti insediati nelle valli più
vicine, quindi in Badia ed in Marebbe. Ne consegue che la tradizione
più attendibile e più ricca di particolari originali
dovrebbe ritrovarsi proprio in queste zone: non che le eventuali
varianti localizzabili altrove (p.es. in Fassa) debbano considerarsi
prive di interesse o di attendibilità, ma certamente
hanno subito almeno un passaggio in più, e c’è
da aspettarsi che almeno qualcosa sia andato confuso, mischiato
o perduto in questa traslazione.
E’ assai probabile che con la consegna della tradizione
ai Reti sia peraltro iniziato il graduale fraintendimento, se
non l’oblio, sia dei fenomeni sociali verificatisi tra
i Fanes e che la leggenda descriveva per allegorie, per intenderci
quelli concernenti il matriarcato e la sua crisi, sia dei veri
significati, mistici e ritualistici, delle “alleanze”
e degli scambi dei gemelli. A quest’epoca potrebbero datare
anche alcune altre modifiche essenziali: da una parte l’aggiunta
delle scene finali, con le quali le speranze concrete di una
ricostituzione del regno, ormai definitivamente svanite, si
dissolvono in una remota ed astratta promessa di redenzione;
dall’altra la confusione delle figure di Spina-de-Mul
ed Ey-de-Net con i più antichi personaggi mitici.
Un
secondo indubbio trapasso si ebbe con l’arrivo dei Romani,
all’inizio della nostra era, e la trasformazione della
lingua retica nella parlata romanza che poi verrà detta
“ladino”. Questa dovette probabilmente fungere già
da subito da lingua parlata, mentre il latino vero e proprio
veniva usato – nei rari casi in cui poteva servire –
come lingua colta. A quest’epoca dovrebbero datare soprattutto
le traduzioni e le traslitterazioni dei nomi propri di persona,
di luoghi e di popoli; col che si persero probabilmente, da
una parte il quadro unitario delle tribù appartenenti
alla coalizione paleoveneta, dall’altro molti se non tutti
i nomi originali dei protagonisti della storia. Potrebbero inoltre
essersi introdotti alcuni richiami alla mitologia classica,
come l’arco d’argento di Artemide, e gli accenni
a certe pratiche divinatorie che non sappiamo se fossero realmente
coltivate in tempi precedenti.
Il terzo passaggio culturale dovette verificarsi con la cristianizzazione,
che avvenne molto tardi rispetto a quanto accadde in pianura,
e quindi addirittura dopo la fine dell’impero. Non sappiamo
esattamente quanto le valli dolomitiche interne siano state
interessate direttamente dalle invasioni baiuvare, franche e
longobarde, anche se è verosimile che lo siano state
piuttosto poco, da una parte sulla base del loro risultare assai
defilate, dall’altra a causa del fatto che al loro termine
il dialetto reto-romanzo verrà chiamato “ladino”,
ossia “latino”: quindi un’isola di relitta
romanità in un mare di non-latini. Di qui in avanti iniziò
un lungo periodo di sostanziale stasi o tutt’al più
di lente trasformazioni culturali, sostanzialmente privo di
bruschi cambiamenti epocali, nel quale il processo di degradazione
della leggenda fu prevalentemente superficiale e legato ad aspetti
tutto sommato di contorno. Fra questi possiamo sicuramente citare
la completa perdita di significato dei particolari legati ai
culti od alla metallurgia dell’età del Bronzo (che
invece per tutta l’età del Ferro dovevano essere
ancora risultati abbastanza chiari e comprensibili ai narratori).
Simultaneamente vennero introdotti alcuni elementi medioevaleggianti,
quali castelli, cavalli ed incantesimi, che peraltro non riescono
ad intaccare la sostanza del racconto. E’ interessante
anzi osservare quanto poco siano riusciti ad incunearsi nella
leggenda elementi di religiosità cristianizzante, o stregoneschi,
o demoniaci: “modernità” che ci si sarebbe
anche potuti attendere, ma da cui invece la leggenda rimase
sostanzialmente immune. Segno, probabilmente, che già
allora essa era sentita come un’importante ed intangibile
eredità culturale di tempi remoti. L’unico ritocco
davvero rilevante dovrebbe essere stato l’incastro visibilmente
forzoso della storia del “principe aquila”, nella
quale è evidente che l’estensore non aveva la più
vaga idea del significato originario del tema, ed ha lavorato
di fantasia introducendo elementi e concetti di conio medioevale,
fors’anche appoggiandosi ad un diverso nucleo narrativo
già esistente in modo autonomo.
Si venne inoltre a costituire, fondendo assieme due episodi
storici separati da vari secoli, l’epopea fassana di Lidsanel;
sembra peraltro assai probabile che la storia del regno dei
Fanes ne venisse in realtà tenuta ben distinta, e nel
parlare dell’eroe partigiano non si facesse semplicemente
altro che aggiungere a sua postuma glorificazione che egli era
“l’ultimo erede degli antichi Fanes”.
Questo
periodo può dirsi sostanzialmente terminato solo col
XIX secolo: i tentativi di colonizzazione culturale, prima ad
opera degli austriaci e poi degli italiani, e soprattutto la
scolarizzazione, hanno distrutto quasi completamente quel poco
che restava dell’antica tradizione del racconto orale,
e dobbiamo solo alla benemerita opera di Wolff
il fatto che ci sia rimasto ancora qualcosa su cui discutere
e sognare.
Quanto alle manipolazioni del racconto introdotte da quest’ultimo,
è ovvio che avremmo le idee un po’ più chiare
se egli avesse saputo astenersene: ma la mia sensazione è
che, almeno dal punto di vista della ricostruzione della leggenda
originale, il suo filtro distorcente sia relativamente facile
da rimuovere, se non altro perché è così
vicino a noi che possiamo renderci conto piuttosto bene degli
ingredienti dai quali è composto. Il lavoro di Ulrike
Kindl risulta essenziale anche a questo proposito.