Tutta
la leggenda è estremamente povera di indicazioni al riguardo
della cultura materiale dei Fanes, e siamo costretti a ricavare
qualche informazione solo sulla base di indizi, e talvolta persino
della mancanza di indizi: un metodo abbastanza rischioso.
Anche
l’archeologia nelle Dolomiti ci propone delle indicazioni
molto precise solo per l’età del Bronzo medio e
recente, ma non per quello finale e per la prima età
del Ferro. In particolare, le accurate analisi eseguite sulla
piccola struttura abitativa di Sotciastel (che non dovette mai
superare le cinque o sei famiglie, ossia da 15 a 30 abitanti)
ci parlano di una cultura agricola ben sviluppata, di una dieta
che comprendeva carne di caprovini e bovini, ma in cui compariva
anche il maiale, e di una certa abbondanza di oggetti metallici.
E’ stata rinvenuta anche una forma per ricavare fusioni
in bronzo; il che non viene tuttavia interpretato come una capacità
metallurgica autonoma, ma semplicemente come un segno del passaggio
di fonditori girovaghi (cui si dovrebbero far risalire anche
i cosiddetti “ripostigli”, composti da oggetti di
bronzo, semilavorati e pani di bronzo ancora da colare, che
si possono trovare occasionalmente, sepolti in varie località
prive di caratteristiche speciali). Insediamenti del tipo di
Sotciastel, che fu distrutto verso il 1300 A.C., si trovano
ancora sporadicamente nel bronzo finale; fa seguito una lunga
assenza di reperti che dura fino alla piena età del Ferro,
per cui non sappiamo praticamente nulla di come siano vissuti
gli uomini nel periodo intermedio.
Dobbiamo
quindi appoggiarci ai soli e ben scarsi elementi offerti dalla
leggenda.
Per quanto riguarda i Fanes, abbiamo già osservato l’assenza
del più piccolo appiglio che ci rimandi all’agricoltura.
Non solo non si parla mai di attrezzi, attività, esigenze
agricole, ma nemmeno traspaiono accenni a credenze, miti o ritualità
che possano avere qualche attinenza con essa. Infine, e questo
indizio può essere decisivo, sappiamo che gli altipiani
di Fanes e Sennes
non potevano costituire un sito ideale per le coltivazioni neppure
in un clima moderatamente più caldo di quello attuale.
Se dunque i Fanes avessero cercato di sviluppare le loro capacità
di produzione agricola, avrebbero indubbiamente colonizzato
almeno parte di quei terreni di fondovalle, che vediamo sostanzialmente
spopolati e completamente a loro disposizione. Invece la leggenda
afferma implicitamente, ma senza margine di dubbio, che mai
i Fanes si sognarono di appropriarsene. Si può dunque
concludere che l’agricoltura, anche se forse non era loro
completamente sconosciuta, non rappresentò di certo un
fattore sostanziale per la loro sopravvivenza e nella loro cultura.
Rimangono la caccia-raccolta e la pastorizia. La caccia è
l’unica attività economica in qualche modo documentata
dalla leggenda, mentre della pastorizia vi è solo qualche
labile indizio, che potrebbe facilmente essere soltanto il frutto
di interpolazioni molto tarde, perché nel racconto non
ha comunque la minima importanza strutturale. Come nel caso
dell’agricoltura, possiamo dunque soltanto fare delle
deduzioni. Abbiamo interpretato la sacra alleanza del popolo
dei Fanes con la marmotta nel senso di identificazione col comportamento
delle marmotte, ossia la fuga in nascondigli sotterranei all’approssimarsi
di un nemico; ed abbiamo visto come questa strategia sia attuabile
solo da un popolo di modeste dimensioni che viva da troglodita
su un altopiano carsico e sia del tutto o quasi privo di risorse
economiche che non possano essere frettolosamente nascoste in
caso di bisogno. Vale a dire che i Fanes delle origini non potevano
essere dei pastori: non resta che concludere che erano un popolo
di cultura ancora sostanzialmente paleolitica, ossia che viveva
di caccia e di raccolta. Abbiamo visto però che le risorse
trofiche spontanee degli altopiani non erano sufficienti ad
alimentare una popolazione abbastanza folta da poter mettere
in campo un vero esercito, neanche in base ai modesti concetti
del tempo. Dunque è giocoforza supporre che nei secoli
successivi alla “fondazione” del regno i Fanes abbiano
sviluppato anche la pastorizia, presumibilmente di soli caprovini,
molto adatta alla tipologia del loro territorio. Occorre comunque
sottolineare come questa conclusione sia una presunzione molto
ragionevole, ma pur sempre soltanto una presunzione.
Va poi affermato che assolutamente nulla ci viene detto circa
attività economiche complementari quali la ceramica,
la tessitura, la confezione di canestri ecc., la cui presenza
tra i Fanes possiamo soltanto supporre, per analogia con altre
società del medesimo livello culturale (cfr. per esempio
il ricco corredo personale di Ötzi, vissuto svariati secoli
prima, o gli ottimi calzettoni, quasi coevi ai Fanes, trovati
addosso all'uomo delle vedrette di Ries).
Quanto infine alla metallurgia,
sappiamo già dai dati archeologici che nel periodo in
cui probabilmente vissero i Fanes essa ebbe un periodo di drastico
declino in tutta la zona. La leggenda ci descrive come i Fanes
siano tanto a corto di oggetti metallici, e di armi in particolare,
da andarli a cercare rovistando sul fondo dei laghi sacri, e
come, quando hanno bisogno di realizzare un grande scudo (oggetto
peraltro di fusione piuttosto impegnativa) siano costretti a
rivolgersi a dei fabbri silvani abitanti piuttosto lontano,
al confine tra le valli di Fiemme e di Fassa. E’ pur vero
che veniamo lasciati supporre (senza però che venga mai
affermato esplicitamente) che gli artigiani che pongono mano
alle armi di Dolasilla possano anche appartenere agli stessi
Fanes, però abbiamo visto come l’arco metallico
sia certamente frutto di un equivoco e la corazza possa essere
consistita di lamine trovate già pronte per il montaggio.
Quanto alle famose trombe,
la loro realizzazione trascendeva certamente le capacità
di qualsiasi bottega di fabbro dell’intero arco alpino
dell’epoca: si trattava dunque di oggetti importati.
Il commercio di manufatti metallici nelle future Dolomiti ladine
ci appare quindi, se non forse fiorente, comunque non del tutto
spento anche nel Bronzo finale. Abbiamo a confermarcelo la presenza
sia del Vögl
delle Velme, sia dei Silvani
presso il lago d’argento. E l’estrazione del rame
continuò certamente, nonostante gli episodi locali di
esaurimento cui si ispirò il mito dell’Aurona:
quanto meno, le miniere collegate ai fabbri “del Latemar”
dovevano essere ancora ben attive. I Fanes certamente poterono
approfittare di questi traffici, ma non li praticarono mai in
prima persona.
Se
della cultura materiale dei Fanes non ci vien detto quasi nulla,
ancor meno la leggenda ci riporta sugli altri popoli confinanti.
Da alcuni cenni sull’esercito della coalizione si può
presumere che le armi metalliche fossero quanto meno abbastanza
comuni. Possiamo inoltre presumere che gli abitanti delle zone
di fondovalle praticassero l’agricoltura oltre alla pastorizia;
e che la molla principale che spinse i Paleoveneti
a risalire le valli dolomitiche meridionali fosse la ricerca
di minerali. E questo è tutto.
Sappiamo peraltro dai resti archeologici che in quell’epoca
la cultura paleoveneta, pur ancora lontana dai fasti della seconda
metà del millennio, era pur sempre relativamente avanzata
ed era in grado di produrre una vasta gamma di oggetti d’uso
comune e militare di discreta qualità. Ciò va
riferito soprattutto ai reperti di pianura, od al massimo della
val Belluna; della penetrazione nelle valli non abbiamo al contrario
testimonianze archeologiche probanti, se non attribuibili a
qualche secolo più tardi. Che dunque popoli come i Caiutes
fossero in qualche modo inseriti nell’orbita paleoveneta
(e forse già controllati da un’aristocrazia paleoveneta)
è solo la leggenda ad indicarcelo, ma lo fa senza nemmeno
rendersene conto, e dunque senza lasciare il sospetto che il
narratore possa aver distorto volontariamente i fatti o le situazioni
cui accenna.
Anche
su questo argomento l’archeologia è in grado di
dirci qualcosa, anche se non più d’un tanto. Nell’età
del Bronzo (come già parzialmente nel Neolitico) si possono
trovare tombe più ricche e tombe più povere, chiaro
indizio che la società ha già cominciato a differenziarsi
verticalmente; appaiono anche diversificazioni nei corredi tombali
a seconda dei mestieri esercitati, ed in particolare alcune
tombe assumono una magnificenza nettamente superiore alle altre,
tanto da rendere evidente l’esistenza di un monarca, presumibilmente
ereditario. Non vi è, al contrario, una disparità
evidente nella ricchezza dei corredi tra uomini e donne della
stessa classe sociale, pur differenziati per sesso, segno di
una probabile e sostanziale parità di diritti, pur nella
diversità dei ruoli.
La
leggenda dei Fanes riporta in effetti in modo assai chiaro l’esistenza
di un sovrano, sia tra i Fanes che presso tutti gli altri popoli
descritti (con l’eccezione dei Duranni,
ma l’assenza potrebbe essere frutto solo del caso). Anzi,
più esattamente, nel caso dei Fanes riporta l’esistenza
sia di un re che di una regina; per i Bedoyeres
ricorda solo la regina; il caso dei Landrines
è meno chiaro, ma si potrebbe supporre che la regina
sia in effetti più importante del re.
Entrambe le regine dei Fanes ricordate dalla leggenda (la prima
e l’ultima: entrambe potrebbero in qualche modo “riassumere”
in sé diverse generazioni) prendono un marito all’esterno
del popolo Fanes; la prima tra i Landrines,
la seconda (secondo ogni verosimiglianza) tra i Caiutes.
Anche da questo, si è tratto lo spunto per affermare
che i Fanes costituiscano una società di tipo matriarcale
(in cui è la donna il “capo di casa”) e matrilineare
(in cui l’asse ereditario si trasmette di madre in figlia).
Entrambe le conclusioni sono probabilmente corrette, fermo restando
che la matriarcalità delle società primitive,
come i Fanes indubbiamente sono, non va intesa come l’inversione
della parti rispetto ad una civiltà patriarcale sul tipo
(a puro titolo di esempio) di quella romana classica, profondamente
sbilanciata in favore degli uomini ed in cui le donne non contano
legalmente e di fatto quasi nulla, bensì come una società
sostanzialmente paritetica. Ed in effetti si osserva come il
re sia ben lungi dal non aver voce in capitolo; e questo anche
all’inizio e non solo alla fine del regno, quando indubbiamente
si assisterà a tensioni e modificazioni sociali di vario
genere. Quanto alla trasmissione matrilineare della corona,
essa non sarebbe in sé una conseguenza indispensabile,
tuttavia la leggenda la lascia intuire in base all’esistenza
di una “dinastia”, e non vi sono ragioni per rifiutare
l’assunto.
Assai più dubbia mi pare la correttezza dell’affermazione
che nella società Fanes esistesse un tabù di esogamia
obbligatoria, collegata al fenomeno del totemismo. L’autoidentificazione
dei Fanes con la marmotta non deve essere vista in sé
come indicazione di un vero totemismo esogamico collettivo,
che richiederebbe invece la suddivisione della tribù
in diversi clan, ciascuno con un totem diverso. Rimane il fatto
che, fossero o meno obbligate a farlo, le regine dei Fanes usavano
sposare uno straniero. Nulla sappiamo circa i dettagli della
successione al trono, se cioè avvenisse alla morte della
madre, o al raggiungimento di una data età, o al momento
delle nozze; né quale fosse il destino dei genitori eventualmente
superstiti. Possiamo intuire, dalle modalità dello “scambio
dei gemelli”, che non fosse la primogenita ad accedere
alla corona, bensì la seconda figlia femmina (e se ce
n’erano più di due?): ma si tratta solo di libere
interpretazioni su argomenti cui la leggenda accenna molto velatamente
e spesso solo implicitamente. Sembra che i figli maschi fossero
comunque esclusi dalla successione, almeno fino agli ultimi
anni del regno. Si noti che il ruolo della discendenza maschile
diventa invece di primo piano nelle storie del principe aquila
e successive, (ossia dopo che il regno è, di fatto, definitivamente
morto e sepolto); anche solo da questo particolare, quei capitoli
sono chiaramente riconoscibili come un’interpolazione
più tarda, legate ad un periodo storico in cui la patrilinearità
era considerata un fatto scontato.
A giudicare da quanto riportato nella leggenda, il ruolo decisionale
della regina pare comunque essersi limitato alla scelta del
marito: successivamente sembra che fosse il re quello che prendeva
le decisioni di maggior momento, mentre la regina esprimeva
soltanto dei pareri. Difficile dire se questa fosse la prassi
normale, o se fosse una situazione anomala particolare che si
venne a creare tra l’ultimo re e l’ultima regina,
o ancora se ciò che ci è giunto non sia stato
pesantemente distorto da quasi tre millenni di narratori abituati
a vivere in pieno e assoluto patriarcato. Indubbiamente, almeno
verso la fine del regno, il ruolo della regina doveva aver perso
buona parte della sua componente pratica, “politica”,
ed essersi via via sempre più limitato all’aspetto
religioso, di garante della prosperità del regno in quanto
custode e simbolo vivente della “sacra alleanza”
con l’animale totemico.
E’
opportuno inserire a questo punto anche qualche considerazione
sulla “magia” e sul significato che dobbiamo attribuire
alla parola “magico” nel contesto del ciclo dei
Fanes.
Vi è un certo numero di oggetti che vengono definiti
magici in sé: le frecce infallibili di Dolasilla, la
freccia che la ferisce, lo scudo di Ey-de-Net, le timpenes dei
Landrines. Tutti questi oggetti sono metallici. Non è
dunque azzardato affermare, come abbiamo già fatto più
volte, che nel contesto della leggenda dei Fanes (e forse nel
contesto generale della protostoria europea) la parola “magico”
debba semplicemente intendersi come “metallico”,
e non è difficile rifarsi al concetto di “magia
dei metalli”, la riverenza dei non iniziati per le capacità
apparentemente esoteriche del fabbro di creare oggetti di cui
non solo la forma, ma anche la stessa materia prima non esistono
allo stato naturale e vengono prodigiosamente poste in essere
dall’artefice. Sembra dunque possibile supporre che il
significato concettuale originario di “magico” fosse
semplicemente quello di “non presente in natura”,
da cui solo pian piano ed in altri orizzonti culturali è
passato a significare “dotato di virtù soprannaturali”.
Va ancora osservato come il metallo che nella leggenda viene
universalmente definito “argento” non possa essere
null’altro che bronzo, e come venga affermato che la corazza
di Dolasilla, che abbiamo supposto essere formata da lamine
di grezzo ferro, risulti alla prova dei fatti penetrabile da
punte metalliche, ossia “magiche”. Quanto all’infallibilità
delle frecce, abbiamo osservato che essa doveva derivare dalla
particolare dirittura delle canne lacustri impiegate, mentre
la “magia” legata alle frecce sembra più
connessa alla loro particolare forza di penetrazione, ossia
al fatto che esse sono dotate di punte metalliche, ritrovate
nel tesoretto delle caverne presso il lago d’argento.
Va anche detto che l’unico avvenimento di tutta la storia
percepibile da un lettore moderno come “magia” è
proprio l’annerimento della corazza di Dolasilla, che
però può essere ricondotto ad un banale fenomeno
di corrosione del metallo (sia ciò successo realmente
alla guerriera, o sia un espediente letterario di un narratore
più tardo).
Vi sono poi due personaggi cui vengono esplicitamente attribuiti
dei “poteri magici”: Spina-de-Mul
e la Tsicuta. Di
fatto però i due cosiddetti “stregoni” non
compiono nel racconto assolutamente nulla di esoterico. Della
Tsicuta abbiamo
analizzato estesamente comportamenti, motivazioni e simbolismi.
Spina-de-Mul compare
nella doppia veste di sciamano almeno culturalmente paleolitico
e di capo spirituale dei Lastoieres.
Le sue azioni nel corso della cerimonia iniziatica del ragazzo
Ey-de-Net, in realtà un racconto mitologico incastrato
a forza nella leggenda dei Fanes, ma appartenente ad uno strato
culturale molto più antico, vengono costantemente descritte
come il ragazzo stesso poteva e doveva percepirle, cioè
come soprannaturali. Abbiamo investigato la figura dello Spina-de-Mul
“moderno”, concludendo per la possibilità
che si tratti di un “missionario” paleoveneto tra
i Lastoieres, in quanto caso
del tutto anomalo, almeno nell’ambito locale tradizionale,
di figura maschile che agisce da intermediario con la sfera
del sacro. Non vi è comunque proprio nulla che ci autorizzi
ad attribuire a Spina-de-Mul
gli “incantesimi” di un mago Merlino ante litteram,
come a volte sembra che i narratori più tardi (o Wolff
stesso?) abbiano avuto la tendenza a fare: anzi, va sottolineato
come il concetto stesso di magia intesa nel senso di incantesimo,
ossia sfruttamento di segrete potenze soprannaturali allo scopo
di modificare il mondo naturale, appaia completamente estraneo
alla sfera culturale dei Fanes.
Dell’organizzazione
sociopolitica dei Fanes ci viene detto abbastanza poco. Abbiamo
visto come la loro economia dovesse sostentarsi all’inizio
unicamente sulla caccia e sulla raccolta, ma debba poi essersi
evoluta verso la pastorizia. Nessuna di queste forme di economia
si presta bene allo sviluppo di forti differenziazioni sociali,
come pure del senso della proprietà individuale: entrambe
le cose nascono piuttosto nell’ambito di una società
agricola e finiscono col caratterizzarla. Né pare vi
sia stata tra i Fanes una casta artigianale, e nemmeno una casta
sacerdotale vera e propria, anche se nulla esclude che alcune
anguane possano essere
state delle donne di etnia Fanes. Possiamo dunque supporre,
per analogia con altre strutture sociali, (ma solo supporre,
perché nella leggenda non vi sono appigli né per
dimostrarlo né per smentirlo) che la collettività
dei Fanes fosse essenzialmente una società di eguali,
tra cui si distinguevano soltanto la regina, in quanto portatrice
della regalità e custode dell’alleanza con le marmotte,
ed il re soprattutto in quanto capo dell’esercito.
L’organizzazione
militare dei Fanes sembra essere stata abbastanza rudimentale
e corrispondente alla loro struttura sociale: una banda indifferenziata
e male armata, cui concorrevano normalmente tutti gli uomini
(se non anche le donne) che avevano voglia di combattere, ed
in caso di bisogno tutti quelli che erano in grado di farlo.
La menzione degli “splutes” (termine con
cui sembra si alluda ad una milizia “regolare” formata
da giovani) fa tuttavia presumere, più che un nucleo
di guerrieri di mestiere, l’esistenza di una sorta di
naia, o almeno di una corvée per la sorveglianza dei
confini. L’ipotizzata “società
dell’avvoltoio” poteva forse costituire un reparto
d’élite, una guardia reale meglio armata ed addestrata
e dotata di grande spirito combattivo.
Dobbiamo
spendere ancora una parola per valutare la possibilità
dell’esistenza del lavoro servile, o addirittura di schiavismo
tout court, particolarmente nel caso dei prigionieri di guerra
(si confronti, ad esempio, con l’Iliade). Se ne è
intravisto un tenue indizio nella “liberazione dall’incantesimo”
dei Silvani presso il lago
d’argento, che sembra poter alludere al riscatto da
una condizione di lavoro sostanzialmente coatto al servizio
del mercante/fonditore girovago, se non addirittura dalla schiavitù
imposta dallo stesso re dei Fanes, che li aveva catturati.
Naturalmente i più tardi narratori della leggenda hanno
fatto accurata pulizia di questo come di qualsiasi elemento
che potesse esser visto come evidentemente negativo, quindi
non ci viene riportata una parola circa la sorte dei prigionieri,
come pure dei massacri, stupri e quant’altro, che pure
non potrebbero stupirci come esito delle “guerre”
di rapina allestite dai Fanes. Pertanto non ci resta che supporre
che il comportamento dei Fanes sia stato analogo a quello di
qualunque altro popolo del loro tempo – ossia, con l’occhio
di oggi, pessimo.
Quanto però al lavoro servile in sé, almeno presso
i Fanes, bisogna osservare che il loro stesso sistema economico
non doveva averne realmente bisogno, e possiamo al massimo immaginarci
qualche famiglio od ancella al servizio della casa reale.
Un’ultima
annotazione va fatta a proposito del posto occupato dalle arti
nella società dei Fanes. L’unico accenno ad arti
figurative è la marmotta
“dipinta in bianco sulle mura del castello”; al
di là del fatto che il castello fosse un castello, ed
avesse delle mura (cose entrambe quasi certamente false), rimane
tuttavia questo lascia intendere una capacità ed una
volontà di rappresentazione simbolica, che sembrano appartenere
alla radice più antica della leggenda, ed in effetti
non si sposerebbero male con una cultura ancora pre-agricola.
Si accenna poi, e ben più ampiamente, al fatto che i
Fanes usassero ed apprezzassero moltissimo le loro celebri trombe
d’argento, qualsiasi cosa esse fossero; anche i Landrines
vengono ricordati positivamente in quanto amanti del canto e
della musica; delle anguane si dice che le loro melodiose canzoni
fossero particolarmente apprezzate.
Infine va sottolineato come, se la leggenda dei Fanes è
giunta fino a noi, ciò sia una conseguenza diretta del
fatto primario che gli ultimi superstiti del popolo Fanes seppero
trarre un complesso di racconti dalle loro stesse vicende e
tramandarseli da una generazione all’altra. Possiamo quindi
concludere che la tradizione del racconto orale era certamente
già viva tra i Fanes stessi: ed è lecito domandarci
quante e quali, tra le altre leggende dolomitiche raccolte da
Wolff un secolo
fa, venissero già narrate accanto al fuoco nelle remote
notti invernali della tarda età del Bronzo.