LA
SECONDA INTRODUZIONE DI K.F.WOLFF AL”REGNO DEI FANES”
Questa
seconda prefazione è tutta dedicata ai tentativi, di
Wolff e di altri, di far rivivere
lo spettacolo tradizionale di “teatro popolare”
ladino, che doveva comprendere la rappresentazione dell’intera
leggenda dei Fanes. Ma dal punto di vista delle ricerche sulla
leggenda stessa, ci interesserebbero di più l’elenco
e le valutazioni forniti da Wolff
sulle sue fonti. Purtroppo però, le reticenze e le ambiguità
prevalgono sulle chiarificazioni. Vedi ancora una breve nota
in fondo.
2.
Il festival dei Ladini
“Le
vostre tradizioni aleggiano sopra tutta la zona dei Monti Pallidi
come il nobile lutto
di un defunto spirato da gran tempo, come il sogno irrequieto
di un lontano regno perduto”.
Hubert
Mumelter, “Il regno dei Monti Pallidi” (Programma
per un’opera da venire),
“Voce sulla montagna”, Innsbruck 1953,
p.114
Il 17 giugno 1951 il popolo ladino ha ripresentato il suo antico
festival, che era rimasto a riposo per un secolo e mezzo ed
era già quasi stato dimenticato, e lo ha rimesso in scena
nella località di Wengen (La Valle in Badia), con grande
concorso di pubblico dalle valli vicine. Tutti i presenti ne
hanno tratto la sensazione che una tradizione millenaria sia
tornata improvvisamente in vita e si sono meravigliati di averne
sentito parlare così poco fino ad ora. Ma in passato
deve sempre essere stato un ristretto circolo di saggi a considerarne
prezioso il ricordo ed a mantenerlo in vita. Il primo scrittore
a riportarne qualcosa fu il geologo della Germania del nord
A. von Klipstein, che più di cent’anni
fa percorse più volte e studiò a fondo le Dolomiti,
prediligendo il gruppo di Fanis. Da lui apprendiamo per esempio,
che il Passo Rit in Marebbe un tempo portava anche un'altra
denominazione, ossia “Glamba”, che oggi nessuno
conosce più. (“Contributo alla conoscenza geologica
delle Alpi orientali”, Giessen 1843, p.45). Klipstein
non si preoccupava di saghe e tradizioni, al contrario di sua
figlia, che lo aveva sempre accompagnato e che gli sopravvisse
a lungo. Nelle sue lettere ad Alberta Bauer (Amburgo) ed al
dr. Max Kuntze (Arco) si trovano numerosi accenni ad un grande
e notevole “ciclo leggendario di Fanis” e ad una
rappresentazione di teatro popolare ladino che aveva come oggetto
questa saga, ma non compare nulla di più. Il dr. Kuntze,
che scrisse più volte a proposito di Arco, Gries e Merano,
partecipò anche vivacemente a quegli scambi di comunicazioni
e percorse più volte la zona dei monti di Fanes, ma non
potè accertare nulla; anzi, in quei luoghi gli si volle
più volte confermare, ciò che il noto ricercatore
di leggende J.A. Heyl aveva già constatato
poco tempo prima [ossia che la zona era molto povera di leggende,
N.d.T.].
I meglio informati erano i fassani Franz Dantone
(fotografo e mastro muratore di Gries, morto nel 1909), Tita
Cassan (professore di istituto commerciale a Bolzano,
morto nel 1905) ed Hugo
von Rossi (impiegato postale ad Innsbruck, morto
nel 1940). Le loro conoscenze tuttavia riguardavano soprattutto
la canzone di Lidsanel, “l’ultimo
dei latrones”. Dell’antico e contiguo ciclo
leggendario dei Fanes, sulle prime non riuscii a guadagnarmi
una visione chiara. In particolare nei primi decenni tutti i
miei sforzi, indirizzati a valligiani di Gardena e Marebbe,
furono vani. Il dr. Alois Vittur, il cronista
di Marebbe, conosceva solo il “Morin
di Salvans”, il “mulino dei nani”
nascosto nel cuore delle Dolomiti di Fanes. Visitando insieme
l’alta val di Fassa incontrammo un uomo di Canazei che
sapeva di “Doresilla” e ci indicò la rocca
di Cerceneda sotto le pareti del Sella, informandoci che lì
quella principessa aveva vissuto a lungo, finchè non
era tornata a Fanes – cosa di cui il dr. Vittur era stupito
quanto me.
Attorno all’anno 1900 conobbi uno studente gardenese di
nome Wilhelm Moroder-Lusenberg, che i suoi
compagni chiamavano “Wili da Zhumbyerk”.
Era un uomo dalle conoscenze molto vaste ed un entusiasta della
storia locale. Tra le nozioni sui Reti, erano soprattutto le
leggende ad attirarlo, e debbo ringraziarlo per le sue molte
ed importanti comunicazioni. Un giorno mi disse: “Noi
ladini conserviamo un’epopea primordiale, che si collega
ai monti di Fanes e che un tempo veniva rappresentata in forma
di festival sui palcoscenici popolari e le piste di danza: è
scomparsa fin dall’inizio della guerra coi francesi, ossia
attorno al 1796; dobbiamo riportare in onore questo spettacolo.”
Il destino tuttavia spinse il mio amico in Boemia e da lì
nella prima guerra mondiale, da cui non tornò più
indietro.
Altri tuttavia mi aiutarono ad andare oltre, e nel 1915 potei
offrire una presentazione complessiva di quell’antico
ciclo di leggende nei numeri dal 19 al 22 del “Mitteilungen
des Alpenvereins” col titolo “L’epopea
dolomitica”. Essa era vista quasi solo dal lato della
val di Fassa, poiché mi ero appoggiato completamente
ad Hugo von Rossi.
Circa nello stesso tempo la signorina von Klipstein aveva indotto
Rudolf Lorenz, un regista teatrale della Germania
del nord, ad investigare sulla leggenda dei Fanes per utilizzarla
in una rappresentazione all’aperto nelle Dolomiti. Lorenz
fu tutto fuoco e fiamme e nonostante la guerra venne a Bolzano
e si affrettò a recarsi nelle Dolomiti, ma naturalmente
non potè concludere nulla. Dei luoghi che gli avevo consigliato
per il progettato teatro all’aperto, gli piacque maggiormente
il campo di Confin sotto il Sassolungo. Durante la mia licenza
dell’estate 1916 ebbi con Lorenz delle lunghe conversazioni.
Gli mostrai tutto il mio materiale ed egli ne trasse una bella
traccia per il festival. Tuttavia un anno dopo dovette far ritorno
in patria, dove presto morì a causa della guerra. Lo
pianse con me il particolare poeta lirico del Tirolo, Arthur
von Wallspach, che già da tempo aveva messo
gli occhi sulla saga dei Fanes e conosceva alcuni particolari
per me del tutto nuovi. Pensava che ormai il festival non potesse
più ritornare in vita e mi esortava a mettere per iscritto
almeno tutto il materiale disponibile, in modo che questo sarebbe
rimasto.
Nel dicembre 1918 pubblicai gran parte di questo materiale sul
“Bozner Nachrichten”, a proposito del quale
ricevetti diverse lettere, fra cui una del poeta ed erudito
Rudolf Pannwitz,
un tedesco del Nord, ed una del compositore viennese Emil
Petschnig. Pannwitz
aveva sentito tramite la signorina Alberta Bauer dell’esistenza
di una poesia epica scomparsa e di un teatro popolare degli
abitanti delle Dolomiti e si fece dare le mie pubblicazioni
per elaborarle. Così sviluppò il suo poema “Leggenda
ladina” (pubblicato da Hans Carl a Monaco-Feldafing
nel 1920). Questo lavoro, che apparve per così dire senza
essere pubblicizzato, passò purtroppo del tutto inosservato.
Emil Petschnig si mise su mio consiglio
in contatto con Hugo von Rossi,
redasse egli stesso il libretto e creò un’opera
in tre atti. Come titolo scelse “Il tempo promesso”.
Petschnig spostò il fulcro
dell’azione sul torneo che Lidsanel
vinse, ma restando senza premio, e sull’ultima scena in
cui la regina e Luyanta percorrono
in barca il lago di Braies. In chiusura
Luyanta si volge verso il pubblico
e dice:
“Il bel tempo antico ritornerà, |
Non vi saranno schiavi né sgherri, |
Quando tutti risorgeranno a nuova vita |
Quelli che hanno patito sulle montagne *).” |
Siccome
ora nell’anno 1928 i commercianti di Innsbruck desideravano
tenere un festival per gli abitanti della città, Hugo
von Rossi e Petschnig proposero
l’opera appena composta. Essa riuscì a conquistare
qualche personalità autorevole. Così, il 14 maggio
1928, “Il tempo promesso”, nella forma
di festival tirolese, venne rappresentato in concerto nella
sala da musica comunale di Innsbruck di fronte ad un pubblico
di invitati. Il comitato promotore del lavoro consisteva dei
signori: Franz Fischer (vicesindaco della città di Innsbruck),
dr. Josef Dinkhauser (responsabile della cultura popolare per
il Tirolo), dr. Karl Senn (musicista), Kurt Blaas (cantante
d’opera), Hugo von Rossi
(capitano a riposo e ufficiale di Posta, in quanto rappresentante
dei Ladini), Wilhelm Waldmüller (in rappresentanza del
teatro cittadino), dr. Franz-Egon Hye-Kerkdal (direttore dell’Urania
di Innsbruck), Alois Sprenger (Vicepresidente della lega degli
albergatori del Tirolo) e dr. Paul Weitlaner (Direttore dello
spettacolo della Passione al Thiersee). La musica fu generalmente
elogiata; per quanto invece riguarda il soggetto, la maggioranza
dei commercianti di Innsbruck affermò che era troppo
estraneo ai tirolesi del Nord; e di conseguenza il lavoro venne
rifiutato. Molto addolorato, Petschnig
se ne tornò a Vienna, dove insistette inutilmente per
anni nei suoi sforzi per riportare il lavoro all’attenzione
del pubblico, finchè morì all’inizio della
seconda guerra mondiale. Il testo e la partitura sono verosimilmente
andati perduti.
In
una cupa sera d’autunno, su invito del signor Arthur von
Wallspach, si riunì a Chiusa una dozzina di interessati,
tra cui anche la mia modesta persona, per discutere del fiasco
di Innsbruck e trovare nuove strade per mettere insieme in tutte
le sue parti e mandare decorosamente in scena quell’antico
teatro popolare. Esistevano grandi difficoltà. Al conciliabolo
era presente anche il poeta del Tirolo del nord reverendo fratel
Willram, che per queste cose era sempre un grande entusiasta.
Quando vide che noi eravamo tutti abbastanza scoraggiati, nel
suo incrollabile buon umore, battè con la mano sul tavolo
e gridò: “Ma miei signori, allora lascereste morire
la speranza! La pazienza e la perseveranza portano a qualcosa;
pensate dunque alle parole di Virgilio: ‘tantae molis
erat romanam condere gentem’ (era difficile fondare
il popolo romano)”. Si rise, ma l’atmosfera rimaneva
depressa e ci lasciammo senza risultati. Non dubitavamo tuttavia
che fratel Willram fosse nel giusto, e una svolta favorevole
si stava già preparando.
Nell’annata
1921 dello “Schlern” avevo trattato della
“poesia dolomitica”, riassumendo brevemente la tradizione
fassana dello “Ultimo
dei Latrones” e menzionando anche il ciclo leggendario
dei Fanes. A seguito di ciò, ricevetti una lettera dal
reverendo Karl Staudacher,
un assiduo collaboratore dello “Schlern”, che si
occupava volentieri soprattutto della val Badia, dei suoi abitanti,
della loro lingua e delle loro tradizioni. Staudacher mi comunicò
di conoscere già da molto tempo il ciclo leggendario
dei Fanes e di volerlo elaborare in un poema epico in versi.
Congiungemmo i nostri sforzi scambiandoci reciprocamente il
materiale raccolto, cosa da cui traemmo entrambi un notevole
giovamento. Concordammo inoltre che io avrei dovuto compilare
il tutto in prosa. Quando lo ebbi completato, Staudacher
ne ricevette una copia, una seconda la spedii a Petschnig
a Vienna. A questo punto avremmo voluto attendere finchè
l’opera non fosse stata messa in scena ad Innsbruck. Visto
tuttavia che questa ritardava, pubblicai il mio lavoro a Monaco.
Il
parroco Staudacher nel frattempo
era stato messo a riposo a causa di una grave malattia agli
occhi e si era trasferito a Bressanone, dove abitava al Cassianeum.
Qui lo visitai spesso, e ogni volta mi concesse di dare uno
sguardo al suo poema, per il quale aveva scelto il titolo “Fanneslied”.
Per tre anni si dedicò totalmente a questa epopea, per
la quale egli, che stava già diventando rapidamente cieco,
si faceva aiutare dalla buona volontà della scrittrice
meranese Henriette von Pelzel. Dopo il completamento, Staudacher
sapeva a memoria il suo intero poema e lo recitava spesso al
gruppo dei giovani studenti di Bressanone, ai teologi del seminario
ecclesiastico e ad altri ascoltatori. Il reverendo Staudacher
mancò a Bressanone nel 1944; il suo manoscritto (368
fogli a macchina) deve essere lì in buone mani. Ne esiste
anche una copia a Brunico. [è stato poi pubblicato nel
1994, cfr. Bibliografia, n.d.t.]
Verso il 1935 venne a Bolzano il poeta berlinese Eberhard
König e vi si trattenne per molto tempo. Aveva
già sentito tramite la signorina Alberta Bauer che nelle
Dolomiti esisteva un notevole ed antico ciclo di leggende, pertanto
si mise in contatto con me. Gli mostrai il mio materiale ed
egli lo trovò del tutto appropriato per un’eccellente
elaborazione drammatica. In effetti, negli anni successivi egli
ne trasse una leggenda drammatica, “Aurona”.
Nel 1941 ricevetti il manoscritto da rivedere e ne ricavai due
bei passaggi, che ho riprodotto qui sotto forma di citazioni.
Anche Eberhard König
nel frattempo è passato a miglior vita.
Nell’ottava
edizione delle mie “Dolomitensagen” (1944)
ho pubblicato il ciclo di leggende del “Regno dei Fanes”
con tutti quei supplementi di cui devo ringraziare il signor
parroco Staudacher, citando
anche il suo lavoro a più riprese. La drammatizzazione
e la ri-rappresentazione di quell’antico poema in forma
di festival popolare, cui aspiravo fin dal 1905, non potè
dunque fino ad allora essere conseguita. Tuttavia, proprio dal
circolo culturale di Bressanone, in cui Staudacher
ebbe un ruolo importante, proveniva il giovane poeta che avrebbe
dovuto restituire ai Ladini il loro vecchio festival sotto una
nuova forma. E’ un ladino egli stesso, nato a Wengen [La
Valle], si chiama Angel Morlang
ed ha studiato teologia a Bressanone. Consacrato prete, ritornò
nella sua valle natale e divenne sacerdote aggiunto alla Valle,
dove potè redigere nelle sue ore libere il festival popolare
che aveva in mente già da molto tempo. Ma col completamento
del manoscritto la faccenda non era conclusa. Morlang
si era spinto solo fino al punto al quale eravamo già
arrivati anche noi altri. Ma Morlang
procedette oltre: volle ottenere anche la rappresentazione;
se questa non poteva avvenire ad Innsbruck, allora perché
non alla Valle, forse con maggior diritto e significato - alla
Valle, dove abitavano i discendenti di quegli antenati il cui
ricordo e la cui verità il festival proclamava –
alla Valle, ai piedi di quelle solitarie e silenziose Dolomiti
di Fanes, la cui cinta di roccia aveva custodito quel misterioso
ciclo di leggende. E Morlang
fece fronte ad ogni difficoltà. Egli progettò
il piano dell’opera, redasse tutte le parti in lingua
ladina, cercò attori adatti tra i suoi compaesani, li
istruì, costruì un palcoscenico, fece cucire i
costumi secondo disegni appropriati, trovò persino tra
la sua gente dei musicisti adeguati; infine dipinse egli stesso
le quinte necessarie, e davvero così belle e fedeli al
naturale, che ci si potesse veramente credere all’interno
dello scenario rappresentato. Il nome “Fanes da tzakàn”
(I Fanes di un tempo), che Morlang
diede alla sua rappresentazione, è puro ladino ed ha
per i conoscitori di questa lingua qualcosa di veramente sacro.
Quattro mesi dovettero durare le prove. Gli attori più
importanti erano: Angela Kastlunger (di Colfosco, tutti gli
altri della Valle) nel ruolo della regina dei Fanes; in quello
del re dei Fanes, Pire Tolpeit; il principe dei Fanes fu Tomesch
Dapòz; nel ruolo di Dolasilla recitò Teresa Nagler,
in quello di Luyanta Maria Altòn e in quello di Ey-de-Net
Karl Valentin. La maggioranza dei testi delle canzoni furono
composti dal reverendo Angel Dapunt; essi furono intonati da
diversi musicofili locali, come Hans Rubatscher, Edi Pizzinini,
il reverendo Angel Frener, Rudolf Pizzinini ed altri. Dell’accompagnamento
strumentale si incaricò la cappella di musica della val
Badia. I musicisti furono: Edi Pizzinini, Hans Rubatscher ed
Hans Valentin. Tre discorsi più lunghi, che furono pronunciati
in teatro, vennero scritti dal maestro di Wengen, Josef Moling.
Direttore generale dello spettacolo fu il reverendo Angel
Morlang.
Le rappresentazioni avvennero il 17 giugno, l’8, 16 e
29 luglio ed il 25 agosto del 1951. L’esecuzione durò
ogni volta più di quattro ore; durante gli intervalli
furono offerti degli intrattenimenti musicali. In generale dominava
la sensazione che non si trattasse solo di un vecchio festival
popolare ripresentato, ma che questo dramma tutto particolare
e vivamente colorito avesse un grande significato per lo stile
della futura vita culturale delle Dolomiti; che non si trattasse
di una rappresentazione teatrale qualsiasi, bensì del
festival nazionale dei Ladini dolomitici, rielaborato finalmente
e riportato a nuova vita.
Postilla:
Nel Calendario Gardenese dell’anno 1952, il dramma “Fanes
da tzakàn” viene accuratamente descritto in
lingua ladina. Numerosi estensori, che purtroppo per eccessiva
modestia si sono firmati solo con le proprie iniziali, si sono
ingegnati a rappresentare tutta la storia in diversi brevi quadri,
cosa che è loro riuscita in modo eccellente. In particolare
devo elogiare la vivace descrizione del mondo d’alta montagna
dei Fanes, a firma S.U.P. Dei disegni molto graziosi della signorina
Resi Gruber aumentano il valore di questa pubblicazione, che
costituisce un momento importante della vita culturale ladina.
_______________
Note:
*) Per
desiderio del Ministero degli Esteri di Vienna questo passo
dovrebbe essere cancellato
________________
Commento:
Resta
quasi del tutto oscuro cosa veramente Staudacher
abbia trasmesso a Wolff sulla
leggenda dei Fanes, e cosa invece questi abbia appreso da altre
e non dichiarate fonti. Il sospetto che non può non sorgere
è che Wolff, dopo aver
scoperto che in Fassa se ne sapeva poco e solo da un punto di
vista “fassano”, in Gardena e Badia non se ne sapeva
nulla, in Marebbe pochissimo, abbia reperito i suoi informatori
in Ampezzo e zone limitrofe, e non ne abbia mai fatto esplicita
menzione per ragioni “politiche”, ossia per non
abbandonare la paternità della leggenda in mano ai tradizionali
avversari dei Marebbani. Resta infatti ancora da capire come
mai né Alton né Wolff,
al contrario di Staudacher,
abbiano trovato tracce della leggenda in Marebbe! Forse la “tata”
che raccontò tutto al futuro parroco, e che egli affermò
(cfr. Prefazione 1) essere stata
una Marebbana, aveva appreso la leggenda da qualche ampezzano?
Infine, visto che Staudacher
trasmise a Wolff la gran parte
delle sue informazioni non per lettera, ma nel corso di colloqui
vis-a-vis, forse non sapremo mai quello che ci interesserebbe
di più, cioè se e quanto Wolff
abbia “ricamato” di suo sui dati antropologici pervenutigli
dalla tradizione genuina.
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