LA
PRIMA INTRODUZIONE DI K.F.WOLFF AL”REGNO DEI FANES”
Nelle
“Dolomitensagen”, edizione Athesia del 2003, la
saga del “Regno dei Fanes” è preceduta da
due capitoli introduttivi, scritti da Wolff
stesso sicuramente nel secondo dopoguerra, e dunque non presenti
nella traduzione italiana di Clara Ciraolo pubblicata da Cappelli,
che è molto anteriore. Traduco qui (riassumendo un po’)
la prima introduzione, in cui sono presenti alcuni importanti
spunti d’indagine; la seconda seguirà. Accludo
anche un mio commento personale.
IL
REGNO DEI FANES
“Mo
les stóryes de Fànis,
köres è tröp piü vödles.”
(Ma le storie dei Fanes,
sono molto più vecchie.)
Secondo
un marebbano
1. IL PAESAGGIO E LE SUE MERAVIGLIE
“Le
Dolomiti sono i gioielli della corona delle Alpi”.
Heinrich
Noé
E’ caratteristico di tutte le vette delle Dolomiti uno
strano aspetto pallido, come se i misteri dei monti e della
luce vi fossero congiunti. Emana da esse quell’incanto
che la leggenda ha così ben ammantato in parole piene
di profondo sentimento affermando che, chi abbia visto una sola
volta le Dolomiti, verrà sempre attratto da una nostalgia
irresistibile a ritornare nei “Monti pallidi”. E
questo non è fondato solo sulla loro bellezza paesaggistica,
ma anche sui ricordi, sui concetti, sui legami tra la verità
e la poesia che nel corso dei millenni gli uomini vollero gradualmente
intrecciarvi. Come esse sono il regno delle forme bizzarramente
audaci e della cangiante luminosità dei colori, così
sono anche la terra delle favole, in cui l’uomo primigenio
ha trasferito tutte i possibili concetti che non riusciva a
comprendere.
Queste caratteristiche del paesaggio dolomitico, che potrei
definire quasi metafisiche, non si ritrovano in modo così
forte ed immediato quasi in nessun posto come nell’itinerario
da Dobbiaco a Cortina, in particolare quando si giunge fra gli
altari di pietra del Cristallo e della Croda
Rossa, in quella cupa strettoia che si intreccia con la
storia medioevale dell’antica fortezza di Peutelstein
[in it.: Podestagno]. Attorno a queste fiere rocce fortificate,
in cui si crede ancora di intravedere gli spuntoni delle torri
di guardia, si avvolge il sentiero come un grande serpente verso
il Dobbiacense, mentre da ogni parte si dischiudono scorci inaspettati.
Il Boite rumoreggia nel profondo, ombre oscure si proiettano
sul cammino, strani abissi si aprono lateralmente qua e là,
simili alle porte di labirinti incommensurabili, e improvvisamente,
alta su imponenti fondamenta, enigmatica ed inconfondibile,
appare rigida e pomposa alla luce del sole una parete di roccia
color rosso corallo – così nettamente scolpita
e dentellata da appartenere anch’essa per forma e colore
alla terra delle favole delle Dolomiti!
Questa
sorta di castello naturale erano le Antruiles. A sud, nord ed
ovest di esse si stende una zona rocciosa nota in antico col
nome di Fanis, che comprende le Antruiles, la Croda
Rossa, il Sasso della Porta sopra il lago
di Braies, la Furcia dai Fers,
le vette del Naynores, della Varela e delle Conturines,
le trigemine vette delle Tofane e l’angusta val Travenanzes
dal nome altisonante, stretta fra pareti strapiombanti.
A
questo paesaggio si associa il nome di Fanis o Fanes, dove col
primo i vecchi ladini indicavano la zona, col secondo indicavano
i suoi abitanti. E si parlava di un “Regno dei Fanes”,
che doveva essere stato florido e popoloso. Il nome, che oggi
appare privo di significato, è altrettanto enigmatico
quanto ogni altro elemento di questo terriotorio, che costituisce
il nucleo più intimo e riposto di tutte le Dolomiti.
Misteriosa ed appassionante è anche la poetica leggenda
collegata ai monti di Fanes, in quanto le leggende costituiscono
l’anima del territorio delle Dolomiti. Un vecchio marebbano,
col quale parlai a fondo per molti anni dell’altopiano
di Fanis e dei racconti del Regno dei Fanes, nascondeva i suoi
ricordi semisvaniti dietro l’espressiva osservazione che
ho posto all’inizio di questo scritto.
L’altopiano
di Fanes, che si estende dall’Ampezzano alla val Badia,
è un deserto di pietra assai poco visitato. Secondo Bertha
Richter-Santifaller, storica delle valli dolomitiche ladine,
l’alpe di Fanes viene nominata per la prima volta negli
anni 1002-1004 come “petra Uanna”
nella descrizione dei confini tra Pusteria e Norital*)
. In questa selvaggia distesa di rocce desolate, fino a pochi
decenni, fa nidificava anche l’avvoltoio
degli agnelli.
In
ogni parte delle Dolomiti, quando discorrevo di ricordi e tradizioni
con le persone più anziane, e cercavo di penetrare fino
all’ultimo recesso dei loro ricordi, rintracciavo nello
strato più profondo, sebbene oscuramente, ma anche in
modo ben radicato, l’immagine confusa di un meraviglioso
“Regno dei Fanes”, del quale tuttavia non si poteva
sapere nulla di più o con maggior precisione. I badiotti
erano quelli che ne sapevano di meno, pur abitando più
vicini alle montagne dei Fanes. Così un uomo di San Vigilio
riassumeva tutto ciò che sapeva sul Regno dei Fanes nelle
semplici parole: “Su a Fanes v’è stato un
castello di fronte alla Loccia di San Cassiano, e vi fu un re
che fece la guerra – e tutto fu distrutto”. Ma quando
mi recai a San Cassiano per saperne di più, i paesani
non ne sapevano proprio nulla.
Nonostante
queste difficoltà, pian piano mi si chiarirono alcuni
concetti, che si devono considerare il nucleo della leggenda
vero e proprio. Si svelò il ricordo di un florido regno
con una potente casa reale e guerrieri a cavallo. Questo magnifico
regno, risalente a tempi assai lontani, sorgeva nella parte
più singolare e meno accessibile delle Dolomiti, ossia
in quei monti di Fanes che un tempo dovevano essere lussureggianti
di vegetazione e splendidamene fertili; la sede della casa reale,
il castello di Fanes, si trovava sulle Cunturines, quelle vette
slanciate che chiudono a sud la conca della Croda
Vanna. Non lontano dal castello si trovava un antico tempio
assai venerato, di cui tuttavia nella tradizione si dice così
poco, che io suppongo che indicare il suo nome fosse considerato
inammissibile. Le marmotte
erano indiscutibilmente, in un certo qual modo, gli spiriti
protettori del regno. Siccome l’ultimo re si distaccò
dalle marmotte, la rovina si abbattè
sui Fanes; invano le donne della casa reale tentarono di evitare
questo destino: il re, suo figlio e suo nipote completarono
il disastro**) .
Le ultime tracce di quel legame totemistico con le marmotte
si possono ancora incontrare nel territorio delle Dolomiti.
Nel 1925, al passo Tre Croci, un vecchio cacciatore mi disse
che uccidere una marmotta era indegno;
aggiunse che gli antenati pagani degli ampezzani consideravano
sacre le marmotte. Inoltre, un uomo della val Badia seppe ricordare
che le marmotte (le “muntanyöles”
con l’accento sulla ö) si riparavano spesso sotto
le capanne dei pastori; disse anche che non erano mai state
timide. Entrambe le cose sono concepibili se si ha cura di loro
intenzionalmente. Questo è contraddittorio con l’opinione,
largamente diffusa tra i contadini di Marebbe, che le marmotte
siano responsabili della comparsa del carbonchio. E’ anche
strana la convinzione di molti cacciatori che originariamente
non vi fossero affatto marmotte in
tutte le Dolomiti, che siano state introdotte in Marebbe per
la prima volta, nel 1886, dal guardiacaccia Fezzi,
prendendole dall’alta valle dell’Inn, e che quindi
si siano diffuse fino al gruppo del Sorapis. Ma questo potrebbe
valere per il Marebbe, dove potrebbero essere state sterminate
a causa forse della citata superstizione, ma non è certamente
vero in generale, perché le marmotte
non possono attraversare un torrente impetuoso, ed anzi non
scendono volentieri a valle, quindi non potrebbero essere arrivate
al Sorapis in così breve tempo. Un ampezzano, con cui
ho parlato nel 1925, affermava che le marmotte
erano molto diffuse tra i suoi monti da tempo immemorabile.
Infine, attorno al 1600, la descrizione del territorio gardenese
a cura del conte Marx Sittich von Wolkenstein riferisce
che in quelle montagne il “promendel”, ossia la
marmotta, apparteneva alla fauna stanziale.
Torniamo
dunque alle considerazioni sulla leggenda dei Fanes. I Fassani
possedevano delle opere teatrali popolari a contenuto guerresco,
le cui introduzioni e postille risulterebbero di provenienza
molto più antica. Vi si menzionava la già allora
semidimenticata canzone del “Regno dei Fanes” e
si qualificava l’eroe fassano Lidsanel
come nipote del re dei Fanes. Già questo lascia capire
che in passato deve essere esistita un’antichissima poesia
epica o dramma popolare in cui si celebrava il “regno
dei Fanes”, ossia la terra ed il popolo primordiale delle
Dolomiti.
A
questo favoloso regno dei Fanes appartiene anche la leggenda
di un grande tesoro che giace nascosto da qualche parte nel
cuore delle Dolomiti. Questa era l’Aurona,
la “terra dell’oro e delle luci”. Ora, le
leggende sui tesori si trovano di preferenza nelle zone minerarie;
ciò dovrebbe rimandare all’antichissima miniera
del Fursill, che si trova sul monte Pore (vedi il racconto
dell’”Ultima
Delibana”). Per questa importante zona metallifera,
da cui antichi sentieri (il “triol de la vana”
ed il “troi payan”, ossia il cammino della
miniera ed il sentiero pagano) portavano a Sabiona, il capoluogo
dell’Isarco, le genti dei dintorni devono aver combattuto
aspramente e ripetutamente nei tempi antichi. Da qui l’intrecciarsi
della leggenda del tesoro con dei racconti guerreschi. Nel
punto centrale del tutto si trova la figura di una principessa
simile ad un’amazzone, cui vengono attribuiti diversi
nomi: Ceduja, Luyanta,
Meyfalente, Dolasilla°))
ecc. Il destino di quest’eroina veniva cantato in versi
non rimati con numerose ripetizioni epiche. Attorno al dodicesimo
secolo, quando l’arte dei cantori ladini, fecondata dalla
rappresentazione delle invasioni barbariche e della passione
di Cristo, aveva raggiunto il suo sviluppo più bello,
le tradizioni retiche vennero intrecciate con nuove idee legate
alla vita delle corti. Sorse così un poema epico ed eroico,
che consisteva di tredici parti e il cui canto deve essere durato
un intero giorno d’estate. (In proposito un vecchio della
val di Fassa, se qualcuno narrava di cose favolose o parlava
senza fine, aveva l’abitudine di dire di lui: “sta
trediciando”). Quel poema eroico raccontava le gesta
ed i dolori di Dolasilla,
illustrava le meraviglie dei tempi antichi nelle Dolomiti e
narrava della tragica caduta del regno dei Fanes! Ma a questa
fine sconvolgente si riannodava la prospettiva di un “tempo
promesso” (el tyèmp impermetù),
“quando sarà di nuovo ciò che un tempo è
stato”. Poi l’ultimo ricordo sprofondava
nelle cupe acque del lago di Braies,
sotto il “Sass dla Porta” (ossia la Croda del Becco),
la cui porta non si può più trovare°°).
Col
mio tentativo di rimetterne assieme i frammenti, volevo che
questo grande ciclo di leggende e di canzoni riacquistasse un’organicità
epica. Che io mi sia preso spesso delle grosse libertà
nell’ organizzare e nel completare il materiale, non posso
negarlo; tuttavia mi sono sempre attentamente sforzato di tutelare
l’essenza ed il tono del nucleo della leggenda come sono
scaturiti dalla territorio e dalla sua gente, in quanto desideravo
ardentemente ristabilire la forma primitiva di quell’antica
poesia. I montanari Ladini, cui leggevo il mio lavoro, ne erano
molto contenti, e mi esternarono più volte che la mia
ricostruzione era corretta; uno ricordava una frase, un altro
un’altra, che una volta aveva sentito.
Anche
Maria Veronica Rubatscher intraprese il tentativo di
rendere possibile una visione organica nella confusione di quei
frammenti di leggenda (cfr. il suo saggio “Tscheduya”
sul n.° 219 del “Dolomiten” di Bolzano
del 20 settembre 1947). In modo appropriato, la Rubatscher chiama
il mondo alpino dei Fanes “il cuore mitico delle Dolomiti”.
L’accorpamento di Laurino nel ciclo di leggende dei Fanes
è un arbitrio dell’Autrice (come pure in Morlang
nel suo dramma popolare).
Nell’anno 1929 ho pubblicato la mia elaborazione del ciclo
di leggende dei Fanes con lo pseudonimo di Anton Allmer
sulla rivista di Monaco di Baviera “Bergkamerad”
(cfr. in proposito la nota redazionale sulla rivista di Monaco
“Deutschen Alpenzeitung”, dicembre 1929,
pag 564.) Ho ulteriormente ampliato oggi i concetti espressi
a quel tempo, inserendo nel ciclo dei Fanes il racconto “La
Croda Rossa”.
Per
quel che riguarda la denominazione „Fanes“, essa
viene per lo più fatta risalire al ladino fana
(padella), in quanto sull’Alpe di
Fanes si trovano numerosi sprofondamenti del terreno in
guisa di fossa. Ma fana è sempre e soltanto
la padella per friggere; in Ladino un avvallamento del terreno
viene chiamato tjaldira, ed uno stretto buco nel suolo
o nelle rocce penya; anche un secchio di legno per
mungere si chiama penya. Come toponimo, “distretto
di Fanis” è usato già dal 1600 in avanti,
e lì i vecchi Ladini parlano anche di un “popolo
dei Fanes”, così il nome dovrebbe avere un’origine
diversa. Esso del resto non si ritrova solo nelle Dolomiti.
Attorno al 1412 il patriarca di Aquileia mandò delle
truppe da Tolmezzo in Cadore; uno dei comandanti della spedizione
si chiamava Niccolò Fanis. Sembra trattarsi di un antico
nome di popolo, che sopravvisse sporadicamente come cognome
di famiglia (cfr. Brentari, “Guida del Cadore”.)
In val d’Aosta esiste un castello di Fenis. Nella valle
del Fèrsina presso Trento una località si chiama
Fennisberg (cfr. Zingerle, “Leggende del Tirolo”,
2.a ediz., Innsbruck 1891, pag.28). Inoltre “Fana”
suona il nome di un ruscello nell’alta valle dell’Inn
in comune di Serfaus (vedi “Pubblicazioni del Ferdinandeum”,
1928, Quaderno 8, pag.314). Ma c’è di più:
in ampie zone della Germania era diffusa un tempo la leggenda
della gente dei Fenes, che talvolta erano descritti come un
popolo antichissimo, talvolta come esseri di natura elfica.
Così in Austria i nani erano chiamati anche “gente
dei Fenes” e se ne raccontavano cose rimarchevoli di ogni
sorta. Il vecchio Vernaleken p.es. riferisce la seguente
leggenda: “Nella Slesia del nord, presso il villaggio
di Heinzendorf, vi è una montagna sulla cui cima si trova
una grotta detta Buco dei Fenes. Lì, all’interno
della montagna, abitava molto tempo addietro il popolo dei Fenes;
non erano più alti di un bambino di cinque o sei anni,
ma la loro testa, che coprivano con un cappello a larga tesa,
era di sproporzionata grandezza. Amavano i bei bambini degli
umani e li rubavano; perciò venivano cacciati. Il re
dei Fenes prese dunque un carrettiere al suo servizio e fece
portare presso il Buco dei Fenes soltanto vesciche di bue. Il
carro si fermò sul confine e su ciascuna vescica montò
uno dei Fenes con armi e bagagli” (Theodor Vernaleken,
“Miti e costumi dei popoli dell’Austria”,
Vienna 1859, pag. 228 sgg.). Il germanista E.H. Meyer
parla di “veneziani o gente dei Fenes” e dice: “il
regno della gente dei Fenes fu più tardi annesso alla
meravigliosa città di Venezia ed al monte di Venere.”
(Elard Hugo Meyer, “Mitologia germanica”,
Berlino 1891, pagg. 120 e 127.
Questa connessione col concetto di “Monte di Venere”
mi sembra estremamente importante; il “monte di Venere”
non è infatti che una zona a dominazione matriarcale,
con una donna che comanda. Ora, la leggenda di una tale donna
si ritrova in molteplici luoghi delle Alpi sudorientali: abbiamo
la “Contessa di Doleda” e “Donna
Chenina” (entrambe nell’alta val di Fassa),
più in là la “Gentildonna della Fratta”,
che doveva abitare nella zona di Rocca Pietore sulle “Rives
del Tjastel”, la “Donna
Dindia” presso Cortina d’Ampezzo, la “Regina
Bongaya” in Alpago, la “Contessa di Priòla”
presso Tolmezzo in Carnia e la “Contessa Hemma”
in Carinzia, - soltanto figure di donne a capo di un principato,
delle quali non esistono prove in tempi storici, e che quindi
sono preistoriche, ma di cui si occupano sempre molto le tradizioni
popolari. Sembra trattarsi del ricordo di antichissimi popoli
che erano guidati da donne e vivevano dunque ancora su basi
matriarcali. Al contatto con le comunità patriarcali
limitrofe, quelle compagini matriarcali furono gradualmente
sovvertite ed alla fine firono completamente annientate. Questa
mi pare la spiegazione più probabile della leggenda del
regno dei Fanes, la sua lotta e la sua rovina (cfr. la prefazione
all’ottava edizione).
Con
la raccolta ed il riordino del materiale ho potuto farmi carico
dei contributi di parecchi altri studiosi, quali Tita Cassan,
Hugo von Rossi, Wilhelm Moroder-Lusenberg,
Arthur von Wallpach e don
Staudacher. A Bolzano ebbi uno dei miei migliori collaboratori
nel commerciante Heinrich Calligari (nato nel 1870,
morto nel 1932). Egli stesso era un bolzanino in tutto e per
tutto, ma i suoi genitori provenivano dalla val di Fassa e tra
di loro curavano di parlare in ladino. Così egli padroneggiava
anche questa lingua, e conosceva anche espressioni che non vengono
più per nulla utilizzate dai Fassani di oggi. Sul ciclo
di leggende del regno dei Fanes , Calligari mi portò
un contributo speciale. Quando gli mostrai il manoscritto e
gli chiesi se gli piacesse la forma che avevo dato a questi
racconti, la giudicò favorevolmente ed aggiunse: “Ora
riscrivetela in buon Fassano: do tradütsioyn e ditsh
vèyes metùi’m semo luré fora da K.F.W.”
(secondo tradizioni ed antiche leggende raccolte ed eleborate
da K.F.W.). Da Calligari sono sempre ritornato quando non potevo
viaggiare fino in Fassa, e gli sono debitore di molte utili
comunicazioni.
Un
ricercatore instancabile, che amava straordinariamente le Dolomiti
e la loro gente, fu il già menzionato Karl
Staudacher (parroco di Lappago). Si è occupato
molto profondamente del ciclo di leggende del regno dei Fanes
e ne ha composto un ampio poema epico in versi ritmati: “Das
Fannes-lied” [La canzone dei Fanes,
n.d.t.], da cui ho estratto diversi passi^^).
Essendo nato a Brunico, Staudacher conosceva in dettaglio il
paesaggio di val Marebbe. Il 31 marzo 1930 mi scrisse: “Le
Sue leggende delle Dolomiti mi aprono ad alcune riflessioni
personali. Esse non hanno un nucleo altrettanto storico come
le leggende popolari tedesche, ma hanno una poesia propria dai
colori pienamente saturi, e su di esse si stende un riflesso
della possente natura delle montagne. Forse mi appassionano
tanto, perché la nostra vecchia tata era una marebbana,
che sapeva raccontare leggende simili…”
_______________
Note:
*)
Il Norital (="valle Norica") fu una regione corrispondente
alla media valle dell’Inn con alcune valli laterali, compresa
quella che va al Brennero, più la valle dell’Isarco.
Dopo il XIII secolo incluse anche la val Venosta (N.d.T.)
**)A
questo punto Wolff accenna ai
reperti di G.Innerebner del 1953
.(N.d.T.)
°)Il
barone von Herzmanovsky-Orlando (Merano), mitologo
ed esperto di nomi, pensava che Dolasilla
potrebbe essere una parola-guida della voce costruita con le
sillabe iniziali dei versi di una canzone (do-re-mi-fa-sol…).
Non era neppure lontano dal pensare che quel nome, che forse
era ancora più lungo, cantato con un ritmo particolare,
ottenesse un effetto particolare. In Ladino non esistono le
consonanti doppie, ma in ogni caso il nome è pre-ladino,
così lo scrivo con la doppia elle: Dolasilla.
Del resto sussiste anche una “geminazione enfatica”,
e questo potrebbe essere il caso; vedi parimenti il nome “Tanna”
(N.d.A.) .
°°)Secondo
Franz Dantone, di Gries, la Croda del Becco, nota in
marebbano come Sass dla Porta, aveva in antico un nome sacro,
che doveva essere conosciuto soltanto dagli iniziati (N.d.A.).
^^)“Fannes”
è la forma tedesca del nome ladino “Fanis”
(N.d.A).
__________________
Commento:
La
traduzione di questo importante scritto di Wolff
mi ha ulteriormente chiarito quanto mi sia stata dannosa la
mancata fluentezza nell’uso della lingua tedesca. Infatti,
se avessi potuto affrontare Wolff
a partire dall’edizione originale, e non dalla traduzione
italiana di Clara Ciraolo, avrei evitato di commettere almeno
un grossolano errore di pensiero. Non perché la traduzione
suddetta non sia fedele, ma perché, essendo stata composta
prima del 1932, le mancano giocoforza alcune parti che Wolff
aggiunse o modificò successivamente; in
primis, questo scritto introduttivo.
L’errore principale in cui sono caduto consiste essenzialmente
nell’aver ritenuto che Wolff
non fosse consapevole del retroscena matriarcale della sua
storia. Dal momento che invece risulta
chiaro - da qui - che lo aveva fin troppo ben compreso, risulta
purtroppo possibile quello che avevo sperato di poter negare:
che, cioè, lo scrittore possa aver
modificato quel che gli era stato tramandato in proposito dalla
tradizione allo scopo (dal suo punto di vista giustificato)
di meglio adattarlo alla sua concezione.
Pare che Wolff abbia appreso
tutta questa parte della storia (intendo quella concernente
il matriarcato) dai ricordi del solo Staudacher
(essa manca completamente nelle stesure anteriori al suo incontro
col parroco), ma non è noto cosa esattamente quest’ultimo
gli abbia riferito. In questa direzione occorre, se è
possibile, affinare la ricerca.
Va inoltre segnalato che, mentre Staudacher,
nato nel 1875 a Brunico, apprese della leggenda dei Fanes nella
sua prima infanzia da una tata della val Marebbe, Alton,
che pubblicò il suo "Proverbi,
tradizioni ed anneddoti delle valli ladine orientali"
nel 1880, e che dimostra di conoscere bene anche le tradizioni
del Marebbe, non fa la minima menzione
dei Fanes. Anche questa apparente contraddizione,
che potrebbe avere molteplici spiegazioni, o nessuna, attende
un chiarimento definitivo.